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Categoria: Digital

La digitalizzazione nel settore medico-sanitario. Intervista al Professor Antonio Vittorino Gaddi

Quali sfide attendono il settore medico sanitario per una buona digitalizzazione? Qual è il futuro della telemedicina? Quali sono gli strumenti che il digitale può offrire per il miglioramento del rapporto medico-paziente?

In questa intervista al Professor Antonio Vittorino Gaddi, Presidente della Società Italiana Telemedicina, scopriamo a cosa serve la telemedicina e quali sono le opportunità di questa tipologia di prestazione medico sanitaria.

Antonio Vittorino Gaddi - Presidente Società Italiana Telemedicina

Quando e come è nata la Società Italiana Telemedicina (SIT)?

Prof. Gaddi:
La SIT nasce dalla volontà ferrea e dall’intuito di un collega che non è più con noi,
Giancarmine Russo, medico di medicina generale a Latina. Aveva capito l’importanza della telemedicina per la gente, per il paziente, per l’anziano, per il bambino, per la medicina generale. 

Parliamo del 1978-1979, epoca nella quale non esistevano ancora i personal computer. Quando arrivarono i primi computer li connettevamo tra loro per cercare di scambiare dati sui pazienti. 

Per cui avevamo un’intensa attività di studio e di ricerca su queste nuove tecnologie. Tuttavia, non avevamo pensato all’importanza di portare questo tipo di tecnologia nella vita di tutti i giorni del paziente e del medico. 

È stata l’intuizione di Giancarmine che ha creato la società. Poi la società, come tutte le società scientifiche che in Italia non sempre hanno un cammino agevole, ha avuto alterne vicende: ha proposto dei congressi, poi si è fermata, ha avuto molte adesioni e molte resistenze. 

È giusto che i giovani sappiano che da oggi in poi si parlerà di telemedicina. In passato veniva considerata una cosa dal carattere amministrativo che semmai doveva avere la finalità di far risparmiare qualche soldo a qualche pubblica istituzione. Pertanto, per vent’anni è stata utilizzata molto poco

Un po’ per la pandemia [da Covid19, n.d.r.], un po’ grazie alla volontà di alcuni soci, che nel 2020 abbiamo deciso di far ripartire con grande forza la SIT. Dai 50-60 soci dell’epoca adesso ne ha 600.

È articolata in sezioni regionali. Oggigiorno, grazie all’apporto di giovani e meno giovani, sta andando davvero bene, sia attraverso focus group disciplinari, sia attraverso una distribuzione sul territorio nazionale.

Quali sono le principali attività svolte dalla SIT e quali sono i vostri obiettivi?

Prof. Gaddi:
Il nostro obiettivo principale resta quello di studiare da un lato e applicare dall’altro tutto ciò che le
Information and Communication Technologies (ICTs) possono dare all’ambito medico, però seguendo la definizione di e-Health data dai ministri dell’Unione Europea nel lontano maggio del 2003: è una buona e-Health qualunque applicazione delle Information and Communication Technologies che, a prescindere dal tipo di tecnologia, sia in grado di incontrare e soddisfare i bisogni del malato e del personale sanitario, ma anche dei cittadini e dei governi. 

Ci sono poi altre definizioni più complesse. Per raggiungere questa finalità bisogna articolarsi in varie tipologie di attività specifiche, alcune sono disciplinari (cioè correlate a specifici campi di applicazione).

Tenete conto che sono molto presenti tutte le discipline mediche,  come ad esempio la telecardiologia, la telegeriatria, l’assistenza al home-care, l’assistenza territoriale con/senza le farmacie, gli infermieri di comunità, tutte le nuove figure che si affacciano alla scena sanitaria, e tante altre.

Qual è la percezione che le persone hanno sulla SIT e sulla Telemedicina? Avete fatto degli studi o dei sondaggi?

Prof. Gaddi:
Per quanto riguarda la percezione verso la SIT possiamo dire che questa è cresciuta moltissimo.

 Al suo interno ci sono esperti di mass media e anche giornalisti. Quindi grazie alle persone che ci sono e a quelle che verranno, la SIT si farà conoscere sempre di più, sia come società sia come gruppi funzionali nelle singole regioni.

Inoltre, ultimamente abbiamo deciso di includere come soci non solo i medici, che sono l’ossatura portante, ma anche gli ingegneri, gli informatici, i matematici, i giuristi, gli esperti di discipline umanistiche, rappresentanti dei cittadini e del volontariato. Stiamo crescendo, sempre più gente ci conosce.

Abbiamo delle ricadute importanti sui social, ma restiamo comunque una società scientifica che parla principalmente ai professionisti il cui scopo è fare promozione della formazione della ricerca, e non tanto disseminazione periferica alla gente.

Invece, per quanto riguarda la percezione che hanno le persone della telemedicina, io direi che è molto confusa in questo momento. Tutti ne hanno sentito parlare, in epoca di Covid ancora di più. Dico confusa perché la nostra popolazione, come anche in altre parti d’Europa, si nutre di quello che viene detto dai giornali.

Gli articoli sulla telemedicina sono stati relativamente pochi e non sempre illuminanti. Ad esempio, in Italia nessuno conosce la definizione di e-Health. I giornali non hanno portato un contributo informativo e Internet fornisce informazioni parcellizzate, diverse l’una dall’altra, poco coerenti, se non addirittura vere fake news.

Probabilmente se interroghiamo venti persone diverse per età, cultura e nazione ci danno venti definizioni di cosa può essere la telemedicina. 

Però se questo fenomeno mi scoraggia dal punto di vista culturale, da un punto di vista operativo io ritengo che non sia un grande problema. Se saremo bravi porteremo la telemedicina a regime, come strumento usuale e abituale degli atti sanitari senza colpo ferire e senza neanche nominarla. Certo è che adesso abbiamo bisogno di dare dei nomenclatori.

Se guardate, infatti, la conferenza stato-regioni e l’Istituto Superiore di Sanità hanno dato una definizione di tutto. Tuttavia queste cose non servono perché il vero processo fisiologico è fare in modo che i medici e il personale sanitario usino queste tecnologie e le applichino alla salute. Il cittadino non deve neanche accorgersi che sono state applicate.

Quando i cardiologi hanno inventato il fonendoscopio, noi non abbiamo spiegato a tutta la gente che cosa era la fonendoscopiologia, l’abbiamo usato e basta, poi le persone si sono abituate a vedere il medico con il fonendoscopio in mano. Questo aspetto è lo stesso che va attuato in tutto ciò che riguarda la salute umana.

La salute del paziente al centro di tutto

Quando si tocca la saluta umana il centro deve essere il paziente, la sua salute e il suo benessere. Se mettiamo l’attenzione sullo strumento tecnologico stiamo facendo un errore, perché stiamo spostando l’attenzione sull’oggetto e non su quello che deve essere il risultato.

Quindi se saremo bravi, utilizzeremo le tecnologie, l’informazione e la comunicazione per potenziare la medicina senza bisogno di dover creare un’ulteriore disciplina.

La telemedicina non è una disciplina in più, è medicina fatta bene con strumenti tecnologici che sempre più dovranno essere usati da tutti. Bisogna andare più nella direzione della visione della percezione della persona del suo benessere, del suo stato di salute e di quello di chi gli è vicino.

È chiaro che se io fossi il titolare di un’impresa che vende un saturimetro di un certo tipo avrei obbligatoriamente bisogno di puntare l’attenzione anche sull’oggetto e quindi di spostare tutto il concetto di malattia polmonare sull’idea che tu devi mettere questa cosa sul dito, guardare lo schermo, guardare i numeri, riferirli ad un medico, eccetera.

Gli anziani vengono molto facilmente disorientati da queste cose, direi depistati. L’anziano non deve essere teso a mettere il saturimetro e a leggere il numerino, deve essere soddisfatto perché in quel momento magari ha un bel libro ed è seduto sulla sua poltrona davanti al caminetto. Non so se mi sono spiegato chiaramente.

Previsioni per il futuro circa gli scopi da raggiungere e le tempistiche?

Prof. Gaddi:
Il primo
Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), presentato un anno fa, era assolutamente inefficiente e non avrebbe potuto far nulla di buono. Con il cambiamento dei governi e gli eventi politici degli ultimi mesi ci sono state molte modifiche migliorative.

Quello che di buono verrà fatto con i fondi della parte di digitalizzazione del PNRR, che riguarda molti settori, verrà messo a sistema nel Sistema Sanitario Nazionale nel 2025. Se in questi due anni di applicazione di cose buone che già abbiamo, e non tanto di ricerca di cose nuove, funzioneranno a dovere, io penso che fra tre anni ci possa essere un salto in avanti in alcuni settori della salute. Ma non in tutti.

La gestione della salute individuale è collettiva, e tutte e due sono compiti dello Stato. Se questa visione della salute dovesse essere migliorata per tutte le fasce di età e per tutte le malattie ci troveremo di fronte a un problema di vera e propria complessità, difficilmente risolvibile a prescindere dal fatto di avere 17 miliardi di euro.

Non è più una questione di cifra o di fondi, e forse neanche di buona volontà, è una questione di cambiamento complesso di un’intera organizzazione sanitaria che cambia in uno stato, e mentre cambia in quello stato deve anche cambiare negli altri stati vicini. Deve peraltro essere attuata rispettando tutti i sacri principi di equità della distribuzione delle risorse, di accesso alle cure, eccetera.

Diventa quindi un’operazione epocale. Qui si crea un piccolo problema: le tecnologie si evolvono con una velocità altissima, alcune addirittura evolvono e muoiono, venendo soppiantate da altre. Questi cambiamenti di carattere strategico-organizzativo, tuttavia, richiedono che la gente e le organizzazioni si adeguino, che cambi la nostra mentalità.

Sono processi lenti, lungo i quali spesso si contano i morti degli insuccessi, perché in tutti i progressi della medicina c’è sempre stato quello che ha funzionato e quello che non ha funzionato. Peraltro, se noi oggi sapessimo curare tutti nel modo più perfetto del mondo forse allora non servirebbero nemmeno più gli ospedali. Saremmo arrivati vicini al buon Dio nel gestire il destino degli uomini. Non è così, è un percorso lento.

Quindi sono molto ottimista dei risultati misurabili in brevi termini. Ma sono anche realista sul fatto che per mettere a sistema e applicare veramente bene tutte le tecnologie e tutte le nuove potenzialità all’intera popolazione per tutte le malattie ci vuole un processo necessariamente lento, di cambiamento, che avverrà nei decenni.

Il gap 90/10 della salute

Io auspico che questo avvenga in modo parallelo in tutti i paesi del mondo perché altrimenti il gap 90/10 di cui ci parla il Global Forum della Health Research dell’Organizzazione Mondiale di Sanità aumenterà ancora di più e ci saranno ancora più disparità.

Il gap si chiama 90/10 perché si basa sul principio che il 90% delle risorse nel campo della salute viene impiegato per quel 10% della popolazione mondiale e, viceversa, il 10% rimanente viene utilizzato per curare il restante 90% della popolazione mondiale.

Credo che la tecnologia ha in sé il potenziale per aiutare tutti di più, ma ha in sé anche il rischio di aumentare i divari. Allora in questo processo, quello lungo, non quello del PNRR, bisognerà stare veramente attenti. Mi riferisco alle future generazioni per cercare di portare avanti in armonia e equilibrio questo sviluppo.

Conclusioni

Christian Pergola:
Al termine dell’intervista è doveroso sottolineare l’importanza del Digital e della digitalizzazione in quanto mezzi, ovvero strumenti che devono servire a semplificare la vita. Devono essere dei substrati praticamente trasparenti, come se fossero delle «protesi del corpo umano», per citare Marshall McLuhan. 

Non deve esserci una soluzione di continuità tra strumento e soluzione, ma lo strumento deve essere praticamente “invisibile” per le persone e agevolare la loro vita in risposta ai problemi da risolvere. 

Questa cosa è molto importante, perché spesso c’è una sorta di feticismo nei confronti degli strumenti che ci fa deviare da quello che poi è l’obiettivo effettivo, quindi risolvere un problema.

In conclusione, un ringraziamento al professore. È stata un’intervista davvero interessante.

Crediti

Anna Vrtev ha intervistato per Midable Magazine il professor Antonio Vittorino Gaddi, Presidente della SIT (Società Italiana Telemedicina).

Introduzione di Silvia Infriccioli (SIT). Interventi di Christian Pergola (Midable).

L’intervista è stata registrata in data 8 novembre 2021.

Intervista completa in formato video

Food Marketing: come portare in tavola il tuo piatto forte

Al giorno d’oggi è sempre più difficile stare al passo con i tempi e seguire le ultime tendenze del food marketing.

Il consumatore contemporaneo e i suoi bisogni sono cambiati, i mercati si sono estesi in fretta e la concorrenza è sempre più alta. Per riuscire ad avere successo nel Food Marketing bisogna sapersi distinguere, vediamo insieme come.

Cos’è il Food Marketing

Il cliente, cosciente e continuamente aggiornato, non è più condizionato da una semplice azione di vendita, ma cerca un’esperienza da vivere e un’identità nella quale potersi rispecchiare.

Non basta più vendere un prodotto di alta qualità: le persone cercano nel cibo un’esperienza estetica ed sensoriale.  

Il Food Marketing rappresenta le strategie commerciali e comunicative che aumentano la vendita dei prodotti e la percettibilità di un brand, ma allo stesso tempo permettono un rapporto duraturo tra l’azienda e i clienti.

Il Digital Marketing a servizio del food

L’Italia è la patria della cucina mediterranea amata in tutto il mondo, dove il cibo diventa prelibatezza per il gusto, l’olfatto e la vista.

Per questo motivo gli italiani, da sempre abituati a delle dignitose pietanze, diventano involontariamente severi clienti con alte esigenze. 

Il tema del food è capace di diventare istantaneamente virale sui social e in rete.

Alcuni dati confermano che:
#food è il 25° hashtag più utilizzato di sempre, con più di 252 milioni di citazioni.
Milioni di utenti visitano quotidianamente un sito relativo al food.

La migliore ricetta per parlare di cibo

Nel settore alimentare è importante immaginare e sviluppare da subito una pianificazione strategica efficace e pensata appositamente per il proprio brand.

Sicuramente il modo migliore per coinvolgere ed emozionare è quello di raccontare una storia. Le storie fanno parte della vita di ogni persona: siamo sempre stati abituati a vedere il mondo che ci circonda attraverso la narrazione. Creare una storia quindi permette di accrescere un solido rapporto con il consumatore, capace di essere sorpreso e sapersi raccontare.

Il cibo non rappresenta più solo un bisogno, perché i consumatori ricercano qualcosa di più quando entrano in un locale o testano un prodotto: originalità, colori, sapori e sensazioni.


Un’ottima campagna di Food Marketing deve riuscire ad intercettare le preferenze dei clienti, coltivando le diverse tipologie di contenuto in grado di catturarne l’attenzione. 

La comunicazione visual è senza ombra di dubbio il canale favorito, soprattutto in risposta ai clienti. Le immagini, assieme alle parole riescono a stimolare ricordi, emozioni e sensazioni.

Quante volte ti è capitato di provare fame solamente alla vista della foto di un gustoso piatto?

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Fotografare il cibo è diventato un vero e proprio mestiere

Da quando i social media fanno parte della nostra quotidianità, è cresciuto sempre di più un interesse per tutto ciò che riguardasse immagine e fotografia.

Instagram rappresenta un esempio lampante, gioca sull’immediatezza e sulla curiosità, sulla condivisione di immagini con brevi commenti. Tra le tante possibilità di interazione e le immagini visibili, sicuramente le foto di cibo hanno sempre ottenuto un grande riscontro.

Perché è così interessante fotografare il pasto che stiamo per consumare?

Ritrarre il cibo è un’arte, questa è una certezza ormai. La food photography è una specializzazione della fotografia, la produzione di immagini attraenti di cibo utilizzate per scopi pubblicitari e per promuovere i piatti dei ristoranti, delle catene di fast food, dei bistrot e dei locali a tema.

Da Bun Burgers si mangia gratis in cambio di un TikTok

Bun Burgers si è sempre distinto dalle altre catene di fast food per la sua forte comunicazione e strategia adottata sui social.

Innanzitutto, spicca la possibilità di ordinare ogni burger nella versione veggie grazie all’utilizzo di Beyond Meat. Il design di interni stimola l’appetito, è fresco e colorato: luci fluo e insegne neon, insieme ad un ottimo hamburger, rendono l’esperienza assolutamente instagrammabile.

Per la sua nuova apertura a Milano, l’anima digitale di Bun Burgers ha deciso di utilizzare TikTok per una campagna che ha fatto tanto parlare di sé nel modo giusto. Il locale ha lanciato una promo attiva per tutto il mese di novembre.

Per partecipare bastava visitare uno dei vari Bun Burgers, creare e condividere un TikTok e mostrarlo in cassa per ricevere un menù gratis a scelta.


Inutile dire quanto il contest sia andato virale sui social, facendo letteralmente impazzire gli utenti, che si sono mostrati sempre più interessati e coinvolti.

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Tutti pazzi per il Selfiefood

La tendenza di postare piatti visivamente estetici, ha dato vita ad una nuova moda: il selfiefood. Basta un filtro, un’inquadratura pensata ad hoc e una luce perfetta, per realizzare un selfiefood di alta qualità.

È importante che le pietanze mangiate non siano tanto gustose, quanto fotogeniche per i social. 

C’è chi lo fa per professione, chi per semplice passione. Tutti, ma proprio tutti, amano condividere i propri selfie di cibo: dalle celebrità al nostro amico fissato, dagli amanti del cibo ai blogger. 

Per migliorare la qualità delle foto dei propri clienti, il locale Dirty Bones di Soho fornisce gratuitamente il kit “Foodie Instagram Pack”.

Foodie Instagram Pack: il kit per scattare foto perfette

Dirty Bones, la catena a Soho che offre piatti e bevande newyorkesi newyorkese, fornisce ai clienti un “Foodie Instagram Pack” gratuito, permettendo loro di poter fare foto uniche, da condividere sulla piattaforma social per riscuotere successo. Ogni kit in dotazione contiene una luce a Led, un caricatore portatile, delle lenti grandangolo e un bastone per selfie.

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"Foodie Instagram Pack" - Dirty Bones
«Le persone che vengono a mangiare al Dirty Bones sono in genere molto attive sui social e questo ci spinge ad inventare di continuo piatti e cocktail che non siano solo deliziosi, ma anche visivamente attraenti»
Cokey Sulkin
Fondatore del Dirty Bones

Secondo i professionisti, il “Foodie Instagram Pack” è un approccio fresco, innovativo e intrigante che sfrutta una strategia di marketing efficace nel mondo della ristorazione.
È quindi prevedibile pensare che in futuro altri ristoranti possano adottare servizi simili o ancora più insoliti e sorprendenti.

Conclusioni

Il cibo non è soltanto una necessità biologica, ma trasmette moltissimi significati comunicativi, relazionali e sensoriali. È una costante nel nostro vivere quotidiano, esprime sapori che più ci rappresentano, riassapora ricordi i concreti e quelli meno tangibili, simboleggia un intenso viaggio emotivo e sensoriale.

La fidelizzazione al brand nell’era digitale, il caso Burberry

Le nuove tecnologie e la digitalizzazione stanno producendo un cambiamento totale nel modo di comprare, pensare, lavorare e vivere.

Non solo da un punto di vista puramente tecnologico e informatico, ma anche sociologico, filosofico e psicologico. Negli ultimi anni si è scritto molto sui profondi mutamenti che il digitale sta apportando alla vita dell’uomo e al suo essere cittadino del mondo.

Una forte accelerazione a questo cambiamento è stata data dalla pandemia del 2020-2021 che da un giorno all’altro ha paralizzato l’intero pianeta; questo nuovo scenario mondiale ha spinto verso soluzioni alternative e reso indispensabile il ruolo della tecnologia digitale.

Il potere delle community

A seguito della lettura del testo #community manager dietro le reti ci sono le persone di Osvaldo Danzi e Giovanni Re, ho cercato di comprendere come anche nel settore della moda, queste innovazioni e cambiamenti avessero preso atto.

Non ero a conoscenza dell’utilizzo delle community così come sono state illustrate nel libro e questo mi ha fatto riflettere su quanti nuovi metodi di fidelizzazione e comunicazione potessero prendere forma soprattutto con l’innovazione digitale.

Argomenti come la brand community, la digitalizzazione e purtroppo i postumi economici e psicologici della pandemia in corso di Covid-19 mi hanno aperto la strada ad effettuare nuove ricerche di settore per comprendere i nuovi potenziali scenari che si prospetteranno in un prossimo futuro.

Ciò che è emerso è una nuova sfida che attende le aziende di moda nel passaggio dalla vecchia filiera di produzione e commercializzazione fino alla nuova necessità di maggiore presenza sul web usando tecnologie innovative e impensabili fino a pochi anni fa.

Strategie da brevi a lungo termine

Dal sempre maggior utilizzo dell’e-commerce alla realtà aumentata come trampolino di lancio per una nuova strategia di proposizione e vendita dei prodotti. Il nuovo mercato impone scelte immediate per fronteggiare adesso una situazione di emergenza ma in futuro da sfruttare e ampliare per creare un continuum che porti i brand ad un livello superiore e adeguato ai tempi.

Sicuramente non scompariranno i negozi e non si perderà il contatto con il consumatore ma questo potrà essere affiancato da un coinvolgimento totale e personale del quale il consumatore potrà godere direttamente a casa propria.

Umanizzazione del digitale

Da affiancare agli studi prettamente informatici che stanno proiettando i brand in un mondo virtuale tutto da scoprire c’è la continua ricerca a livello sociologico e psicologico di rendere questi nuovi strumenti “umani”. 

Oramai la frontiera più importante è quella della umanizzazione del digitale in correlazione con il riposizionamento al centro dell’intero piano marketing del cliente. Accettando il fatto che il cliente possa non essere direttamente presente e a contatto con il prodotto emerge la necessità per le aziende di entrare in empatia con il consumatore per fornire un servizio sempre più mirato alle sue esigenze.

L’importanza di creare community di brand per accrescere non solo la fidelizzazione ma anche il senso di appartenenza andranno di pari passi con la realizzazione di una sempre maggior personalizzazione del servizio.

Stop and Go - Covid 19

citazione chris morton

Queste righe racchiudono il concetto di ciò che sta investendo il mondo della moda in questo difficile periodo. L’ineluttabilità delle conseguenze di una pandemia globale deve portare ad un’attenta analisi di cosa è successo ma soprattutto ad una necessaria visione di un futuro diverso che sappia cogliere, anche da un momento negativo come questo, linfa nuova di cambiamento.

All'inizio della pandemia

I dati di partenza sono pesanti: un danno economico stimato con cali di fatturato di oltre ⅓ solo nel 2020. Il punto di arresto si è concretizzato su due livelli: in un primo momento con lo stop alla produzione dovuto alla necessità di chiusura delle fabbriche e contemporaneamente con la chiusura della distribuzione che ha comportato una paralisi totale del mercato.

Alcune realtà si sono parzialmente riconvertite in aziende atte a produrre materiale indispensabile per il momento che stiamo affrontando ma sicuramente anche questa occasione non ha risanato il danno ingente all’economia di settore.

 

La risposta dei consumatori

In un successivo momento è intervenuto un comportamento psicologico di sfiducia dell’acquirente che, sull’onda delle preoccupazioni pandemiche, non ha trovato più necessario acquistare beni che, viste le circostanze, apparivano superflui.

Questi nuovi e inaspettati scenari hanno spinto i player del settore moda a rivedere l’intera filiera del comparto, dalla produzione alla commercializzazione, per cercare di adattarsi il più velocemente possibile alle nuove esigenze di vita e di consumo.

La digitalizzazione del fashion marketing

L’utilizzo del canale digitale soprattutto nel momento dell’acquisto del prodotto (e-commerce) da anni sta portando ad abitudini di consumo differenti presupponendo nel futuro scenari nuovi anche per il settore moda.

Questa trasformazione, che all’inizio era una semplice evoluzione moderna con l’introduzione nel fashion marketing dell’utilizzo del digitale, ha subito un’accelerazione pazzesca in un momento in cui l’impossibilità di farsi raggiungere fisicamente dal cliente ha cambiato radicalmente i panorami di promozione e vendita.

Infatti non è stata soltanto la chiusura dei negozi, ma anche l’impossibilità di presentare sfilate o di creare altre occasioni di contatto fisico tra brand ed acquirenti a portare verso un ripensamento dell’intero impianto.

Nuove strategie di vendita e fidelizzazione

Il ricorso all’utilizzo di strumenti virtuali, a due anni dall’inizio della pandemia, non viene più percepito come unico elemento possibile di interrelazione con il mondo esterno, ma come prolungamento delle interazioni fisiche.

Questo cambio di mentalità nel consumatore sta portando anche il settore moda a rivolgersi ad un marketing differente e capace di esplorare potenzialità digitali che fino ad oggi non sembravano avere così tanta importanza.

Quello che fino a questo momento poteva apparire come un gioco accattivante adesso diventa strategia di vendita e fidelizzazione. Con una visione rivolta al futuro l’intero settore sta cogliendo l’evoluzione digitale come nuovo momento di contatto tra cliente e brand spostando il piano d’incontro dall’esterno all’interno delle abitazioni. 

Fashion brand e digital

Il cambiamento che il digitale sta imponendo al fashion marketing lo si riscontra su due diversi livelli: il primo strettamente inerente la capacità di analisi dei dati che l’informatica offre, mentre il secondo rivolto ad un cambiamento radicale dello scenario di promozione e fidelizzazione.

 

L’utilizzo delle piattaforme informatiche e dei social offre la grande opportunità di raccogliere quanti più dati possibili sul cliente: la profilazione, la qualificazione e la gestione di interi patrimoni di dati portano alla possibilità di analisi di mercato precise, di piani budget ben delineati e di interventi continui di ricerca mirati alle esigenze contingenti.

D’altronde diventa e diventerà sempre più importante la centralità dell’acquirente in un mondo che ha definitivamente spostato l’asse dal brand all’utente.

Un nuovo sistema “clientecentrico”

clientecentrico

Le esigenze dei consumatori stanno cambiando velocemente e il processo di trasformazione delle aziende operanti sui mercati retail deve poter procedere di pari passo: empatia, personalizzazione e coinvolgimento.

L’ottica di promozione e vendita non può basarsi soltanto sulla conoscenza storica del marchio e sulla catena dei punti vendita, è cambiato totalmente il panorama di contatto e quindi il sistema è diventato “clientecentrico”.

 

L’azienda deve raggiungere il cliente nella propria abitazione, si deve mostrare, deve essere in grado, sfruttando la tecnologia digitale, di creare emozioni e desideri anche in un panorama di distanza. Diventano peculiari i concetti di community e di user experience per stimolare il cliente all’acquisto.

1. Brand community

Già da anni le brand community hanno rivoluzionato il modo di fare marketing espandendo all’intero mondo internet i confini aziendali. La brand community è una community online basata sull’interrelazione fra azienda e consumatori. Differentemente dagli altri strumenti di marketing i membri delle community non solo parlano con il brand ma anche fra loro e con i dipendenti.

2. La cultura del cliente

Non si tratta più di una comunicazione unidirezionale a cascata ma di una stimolante interazione continua fra esterno e interno che permetterà all’azienda di calibrare meglio le scelte di marketing future. Il cliente si sente ascoltato e aumenta dentro di sé la sua percezione di essere importante nelle scelte aziendali, acquista fiducia in sé e nel brand ed è sempre più orgoglioso di farne parte.

3. Un cliente fidelizzato

Il senso di appartenenza, la comunicazione e la condivisione fanno sì che il rapporto fra utente e brand si estenda andando oltre il semplice acquisto ma acquisendo un valore emozionale che lo porterà ad essere non solo fedele ma anche affezionato. Dalle community all’atteggiamento “digital-first” degli utenti che sarà destinato a consolidarsi in futuro.

4. Marketing empatico

La nuova grande sfida per le aziende sarà proprio quella di sapersi differenziare non solo per i prodotti offerti ma anche per la capacità di creare empatia con l’acquirente, di saperlo coinvolgere e farlo sentire parte di un grande progetto, di conquistarlo non solo più a livello di contatto fisico con l’articolo venduto ma anche a livello indiretto con ogni strumento la tecnologia possa mettere a disposizione. 

La differenza tra User e Customer Experience

User Experience

User Experience o UK è il termine che identifica la relazione fra una persona e un prodotto o servizio. Riguarda, quindi, tutti gli aspetti che coinvolgono l’interazione fra un utente e un brand, è letteralmente “l’esperienza” coinvolgendo in essa tutti gli elementi affettivi, valori ed emozioni che accompagnano il soggetto durante questo percorso

Come migliorare la user experience?

Questa viene sicuramente migliorata grazie all’ausilio delle tecnologie digitali come l’intelligenza artificiale e per questo motivo diventano sempre più importanti i dati di base su cui lavorare per creare messaggi, timing e contenuti più in linea con le esigenze dei singoli utenti.

I brand sono chiamati a compiere una vera e propria connessione diretta con il consumatore che deve riuscire a provare tutte quelle emozioni positive che lo fidelizzano pur rimanendo davanti al proprio pc.

Eliminare il limite della distanza fisica con un’apertura diversificata dei punti di contatto con il brand attraverso i dispositivi mobili.

Customer experience

La Customer Experience o CX è l’esperienza complessiva che i clienti vivono durante tutta la loro relazione con il brand. Le aziende dovranno, con i loro piani marketing, acquisire e consolidare la fiducia del consumatore mettendo in atto tutte le strategie necessarie per costruire nuovi modelli di profilazione e nuove soluzioni per creare sempre maggior empatia e senso di appartenenza con esso. 

Come migliorare la customer experience?

Investire sulla customer experience diventa fondamentale per aiutare a comprendere meglio i bisogni e le abitudini e arrivare a costruire un’esperienza unica per il singolo cliente unendo in futuro sia il canale digitale che il contatto diretto. L’e-commerce è antecedente al lockdown come modalità di acquisto ma la chiusura forzata ha portato ad un approccio differente da parte del consumatore che deve esser tenuto in forte considerazione per le strategie future.

Cosa vuol dire entrare nella comfort zone del cliente?

L’accento in ogni piano marketing degli anni a venire dovrà essere necessariamente posto sulla dimensione umana dell’individuo, sulle sue paure, sui suoi desideri e necessità calibrando continuamente interventi e azioni. Solo ricostruendo la fiducia del consumatore si potrà ottenere una fidelizzazione che abbia radici solide nel tempo.

E il piano su cui giocare questa sfida sarà la casa di ogni singolo acquirente, sarà entrare in quella confort zone che ognuno di noi è stato costretto a crearsi in un momento così difficile.

comfort zone

Strumenti della trasformazione digitale

La necessità è diventata quella di fornire attraverso touch point esperienze uniche e coinvolgenti e sempre più interattive.

Vi sono alcuni strumenti e tendenze ultimamente utilizzate dalle case di moda che stanno portando verso una trasformazione digitale importante e irreversibile, vediamone alcuni insieme.

1. Virtual Showroom

Il virtual showroom, ovvero la presentazione delle collezioni interamente virtuale, permette a buyer e partner di consultare e visualizzare foto, schede tecniche del prodotto, immagini interattive in un ambiente riservato e protetto e ovunque si trovino. Questa forma di tour virtuale è utilizzata anche dai clienti che hanno la possibilità di visitare, grazie anche alla realtà aumentata, non spostandosi dalla propria sedia i più lussuosi negozi di moda del mondo. Metodologia fortemente voluta da Prada, Valentino, Dolce&Gabbana e Ralph Lauren. Proprio quest’ultimo, per esempio, ha creato un negozio virtuale che consente di visitare 4 dei più importanti negozi del brand: New York, Parigi, Hong Kong e Beverly Hills a portata di un semplice click.

2. Gaming

Il sempre maggiore impiego di giochi al fine di attirare i consumatori sta diventando uno strumento importante di marketing su cui molte aziende stanno puntando. Il fenomeno cosiddetto della “gamification” ha attirato numerose start up di settore creando un notevole interesse. Ad esempio una piattaforma presentata dal marchio Sunnei ha come protagonisti 10 avatar del brand vestiti con abiti della nuova collezione. Il gioco non ha uno scopo preciso e permette l’utilizzo anche da cellulare. Si è dimostrato un divertente modo per coinvolgere la community globale del brand cosa che la passerella non riuscirebbe a fare. Altri importanti brand di moda hanno annunciato il lancio di una game-app interattiva che permette agli utenti di creare un avatar personalizzato e fare sfide fashion con gli altri utenti.

3. Sfilate online

Le sfilate online saranno sempre più pensate non solo come una necessaria alternativa ma anche come una normale prosecuzione delle sfilate in presenza. Inoltre, attingendo alle potenzialità della realtà aumentata sarà possibile attivare layer informativi e innumerevoli punti di vista per far vivere una esperienza totale anche a distanza. Un esempio importante è stata una delle prime Fashion Week post-pandemia, tenutasi dal 22 al 28 Settembre 2020 a Milano. Hanno partecipato i più quotati stilisti del mondo insieme a giovani emergenti con sfilate live e digitali. Stesso schema seguito anche dagli eventi come il Fuorisalone. Sfilate a porte chiuse e diretta televisiva per Armani, emotivamente colpito dalla pandemia, e un graditissimo rientro in patria di Valentino ne sono uno degli esempi più eclatanti.

4. Camerini prova virtuali

Si è parlato molto di questo argomento nella 4° edizione del Summit e-P (il più importante appuntamento italiano sull’innovazione digitale nel campo della moda) organizzato da Pitti Immagine e svoltosi in streaming il 21 Ottobre 2020. Il camerino di prova virtuale prevede la creazione di un avatar che possa indossare gli abiti al posto proprio sperimentando abbinamenti, colori, modelli e tessuti. Questa idea innovativa era stata, ad esempio, proposta da Gap e dalla sua DressingRoom. La multinazionale dell’abbigliamento aveva presentato nel 2017 un’app per la prova degli abiti in realtà aumentata. Anche in questo caso viene creato un proprio avatar e successivamente è possibile iniziare la prova degli abiti in ambientazioni sempre più curate e personalizzabili. 

5. Personal shopper digitali

Il personal shopper digitale è uno specialista di moda in carne e ossa che offre consigli in streaming e può mostrare al cliente i look indossati, indicazione sui prezzi e suggerimenti sulle occasioni d’uso. Un’attenzione particolare e diretta al singolo consumatore e alle proprie esigenze che permette di dare quella sicurezza nell’acquisto che la distanza può naturalmente togliere. Un esempio di questo nuovo modo di fare acquisti lo possiamo ritrovare nelle scelte attuate dal gruppo Miroglio, per i punti vendita Motivi ed Elena Mirò. Il brand, infatti, ha scelto di sfruttare il servizio Go Instore, grazie al quale le clienti possono collegarsi direttamente al sito e farsi consigliare dalle addette vendita proprio come se fossero in negozio.

Il caso Burberry

Il brand Burberry è stato uno dei primi a cogliere l’occasione della multicanalità delle strategie con scelte intraprese per meglio posizionarsi a livello social e di interrelazione digitale.

azienda 100% digitale

Nel 2006 Angela Ahrendts e Christopher Bailey, CEO e Chief Creative Officer del marchio, hanno dichiarato la loro volontà di trasformare Burberry nella prima azienda di moda “100% digitale”. Attraverso le grandi campagne di content marketing, dal 2006 ad oggi, la casa di moda inglese ha contribuito a trasformare il brand in una macchina generatrice di contenuti di successo.

La realtà aumentata per esperienze sempre più personali

Oggi, con l’ulteriore strumento della Realtà Aumentata, primo brand ad averla usata nel campo della moda, l’azienda sta cercando di dare un impulso propulsivo alla commercializzazione utilizzando la tecnologia per creare un’esperienza di acquisto sempre più emozionante e cucita intorno al cliente. È stata utilizzata la piattaforma Google per rendere possibile ai consumatori di interagire nel modo più semplice creando i propri abbinamenti dopo averli ponderati in associazioni personalizzate (ad esempio può essere posizionata una borsa vicino ad un abito in realtà aumentata nell’ambiente che ci circonda per avere una migliore idea dell’accostamento e del prodotto che stiamo per acquistare).

Gaming Technology

Altro strumento digitale fortemente voluto da Burberry e utilizzato è quello della Gaming Technology attraverso una stretta collaborazione con l’azienda Koffeecup. Insieme sono arrivati allo sviluppo di un software che ha rivoluzionato lo scenario del fashion design. 

Tutto questo ha reso sempre più veloce e semplice il posizionamento delle stampe sui tessuti riducendo il consumo di carta nella fase di progettazione dei campionari. Quindi meno sprechi di fabbrica e un’azienda che si pone agli occhi del cliente come virtuosa e attenta alla sostenibilità per recuperare fiducia e affidabilità.

L’importanza dell’esperienza del marchio

Angela Ahrendts ha dimostrato in questi anni una visione lungimirante volta a creare una vera e propria “impresa- social”, dove impiegati, clienti e fornitori condividono la stessa esperienza del marchio, sia attraverso negozi che piattaforme social. Una forma ancora più moderna di community ove l’interscambio fra azienda e utenti possa definirsi totale. Attraverso un insieme di applicazioni (sviluppate grazie a Salesforse.com) si permette a impiegati di vari reparti e ai clienti di reinventare la loro interazione come brand community. Utilizzando un programma chiamato Chatter, i dipendenti hanno accesso ai dati sulle visite virtuali, alle attività dei visitatori, possono commentare in tempo reale tweet o interventi sul blog. Ognuno può aprire il proprio “portale-Burberry” e iniziare ad interagire sui più svariati argomenti.

Co-creazione di un’azienda

L’azienda, d’altro canto, può sfruttare questi canali per fissare appuntamenti nei punti vendita per i più disparati motivi (dalla prova per acquisto alla sostituzione o riparazione di capi). I dipendenti si sentono perfettamente integrati a tutti i livelli dell’azienda e gli utenti possono sfruttare tutte le risorse tecnologiche messe in campo da Burberry per diventare parte integrante del brand: sfilate, suggerimenti su linee future, chat e acquisto di capi.

La vera rivoluzione sta quindi nella co-creazione umana: impiegati e clienti che lavorano insieme alla riuscita di un brand di successo.

Conclusioni

In questo periodo la strategia migliore per le aziende potrebbe essere quella intrapresa da Burberry, unire sapientemente il proprio passato con un futuro che si prospetta sempre più tecnologico e avveniristico.

Per fare questo si dovrà affrontare un presente sicuramente difficile ed incerto sfruttando i bisogni e le conoscenze in nostro possesso e lanciandosi in una sfida che va ad unire online e offline, tenendo sempre al centro di ogni scelta il consumatore finale.

Fonti

L'articolo sopra riportato è la rielaborazione di un'analisi e riflessione realizzata da me in data 17/02/2021. 

Bibliografia ulteriore: "#community manager dietro le reti ci sono le persone" di Osvaldo Danzi e Giovanni Re

Comunicare il patrimonio culturale: l’arte e l’archeologia alla prova della digitalizzazione

Quando senti la parola “archeologia” le prime cose che ti vengono in mente sono Indiana Jones e forzieri nascosti? Sappi che stai sbagliando strada, ma probabilmente non è colpa tua.

Il mondo dei patrimoni culturali, e soprattutto il mondo dell’archeologia, non vanno esattamente di pari passo con le ultime frontiere della comunicazione digitale, dello storytelling e della digitalizzazione.

Ed è solo ultimamente (possiamo dire “grazie” alla pandemia?) che le cose sono cominciate a cambiare. Vediamo in che modo si è iniziato a comunicare il patrimonio culturale.

Il Digital per valorizzare le arti e l'archeologia

In realtà è dal 2014-15 che sul web hanno iniziato a comparire molti blog e account social legati a gruppi di ricerca, siti e musei di ogni tipo. 

Questo evento può essere letto come la risposta al spesso lamentato “gap” tra ricerca accademica, tutela e fruizione da parte del pubblico. 

Ma cosa manca, e in cosa può aiutare il web nella valorizzazione e comunicazione del patrimonio culturale e archeologico

Innanzitutto, potrebbe abbattere tutti quei luoghi comuni che ruotano intorno alla disciplina: avventurieri, cercatori di tesori nascosti e protetti da chissà quali trappole, maneggiatori di sciabole).

Inoltre, potrebbe far riconoscere al pubblico l’importanza della materia, per la quale le competenze sono molteplici. 

Infine, potrebbe essere un generoso aiuto per la promozione e la valorizzazione del nostro territorio.

Tuttavia, fino al giorno d’oggi, l’errore più comunemente commesso è stato quello di spettacolarizzare il lavoro finito, cioè il reperto o il sito archeologico stesso, senza mostrare né processi e metodi di ricerca, né ricostruzioni e interpretazioni. 

In poche parole, il pubblico rimane all’oscuro di un avvincente backstage.

Qual è il giusto marketing per il patrimonio culturale?

Cosa serve, dunque per comunicare il patrimonio culturale?

Sicuramente un approccio mediato tra tecnologie, linguaggi e creatività sarebbe un beneficio. In questo modo si farebbe avvicinare la conoscenza agli attuali mezzi di comunicazione, evitando una decontestualizzazione e una favolizzazione del patrimonio culturale. 

Il tutto dev’essere corretto, ma allo stesso tempo accattivante, così da attrarre e incuriosire il visitatore sia online che sul luogo.

La promozione dev’essere dal basso, vicina al pubblico, e tramite i blog e i social si ha l’occasione di raggiungere velocemente un enorme numero di persone. Il linguaggio e le strategie da adottare sono da adeguare al target di pubblico prescelto.

La spinta della pandemia

Ebbene sì, tutta la situazione dovuta al Covid-19 è stato un enorme incentivo per muovere passi in questa direzione; ha spinto musei di ogni tipo a considerare effettivamente il loro ruolo nella società, la loro poca presenza digitale e la loro comunicazione spesso inefficiente. 

L’importanza di comunicare il patrimonio culturale è stata ribadita anche dallo stesso Ministro della Cultura Dario Franceschini in un’intervista per la rivista Finestre sull’Arte nel 2020:

«Si sta andando verso una rapida evoluzione della comunicazione delle istituzioni culturali, si sta entrando nella maturità dei musei 4.0 nella quale il digitale avrà sempre di più un ruolo preponderante. Che non andrà a sostituire la frequentazione dei musei, ma la renderà più piacevole, istruttiva ed agevole».

Dario Franceschini

 

Era dagli anni della Seconda Guerra Mondiale che i musei non chiudevano al pubblico. 

Il 13 marzo 2020 il ministero dei beni culturali ha esortato ufficialmente tutti gli enti del patrimonio culturale a eseguire una digitalizzazione dei loro contenuti, consentendo l’afflusso di un pubblico più numeroso, assente a causa delle restrizioni sanitarie. 

Una volta dettate le linee guida generali, molti musei hanno iniziato a mettere a disposizione un catalogo digitale dei contenuti, consultabile direttamente online.

Negli ultimi anni sono poi proliferate altre e varie iniziative digitali, un cambiamento obbligatorio che ha permesso al settore di abbandonare la propria autorevolezza e lanciarsi nel mondo dei social. 

I nuovi ambienti digitali richiedono un linguaggio giovane e accattivante, che certo non esclude la presenza di progettualità e professionisti per poter comunicare il patrimonio culturale in maniera efficace.

Il mercato dei tour virtuali

In un mondo ora più che mai digitalizzato, le istituzioni museali e i siti archeologici hanno dovuto escogitare – e sono tutt’ora in fase di scoperta – metodi per rendere i loro contenuti fruibili dal pubblico online. 

Sicuramente i più gettonati sono i tour virtuali, che rendono più immersiva e attiva la visita, pur non sostituendo l’esperienza fisica.  

Museo dell’Ara Pacis, Roma

Un esempio è la visita online del monumento dell’Ara Pacis, a Roma.

Il visitatore digitale può muoversi all’interno dell’Ara semplicemente usando il mouse, ottenendo approfondimenti su di essa e sulle sue raffigurazioni cliccando su specifici punti dati dal sito.

Museo dell’Ara Pacis di Roma
Museo dell’Ara Pacis di Roma

Museo Archeologico Nazionale di Taranto (MArTA)

In questo caso la fruizione del servizio è gratuita, ma altri musei, come il Museo Archeologico Nazionale di Taranto (MArTA), offrono invece tour virtuali in cambio di una donazione pecuniaria.

Tutte queste iniziative hanno contribuito alla creazione di un vero e proprio mercato virtuale di tour guidati, sia dai siti stessi che con la partecipazione di guide certificate che interagiscono e spiegano al visitatore a casa direttamente dal luogo della vista. 

E non finisce qui.

Queste novità finalmente introdotte nel mondo dei musei e dell’archeologia hanno fatto sì che queste non fossero più realtà passive, chiuse e dalle nozioni altisonanti. Hanno permesso di sviluppare una relazione molti a molti: specialisti e studiosi che aprono le loro competenze alla totalità e al linguaggio del pubblico. 

Nel campo dell’archeologia, invece, sono nati molteplici blog e visite virtuali mirati a raccontare le giornate di scavo, coinvolgendo finalmente un pubblico ignaro di cosa si celasse dietro al reperto esposto nella teca di un museo.

Questo aspetto di coinvolgimento del pubblico al lavoro archeologico non è una novità. Già l’archeologo Mortimer Wheeler (1890-1976) realizzava dei veri e propri “open day” sul luogo dello scavo, permettendo a tutti di partecipare osservando il lavoro. 

Il maggiore coinvolgimento del pubblico porta beneficio anche ai musei stessi, principalmente per due motivi:

  1. permette di attrarre più visitatori e ad aumentare il loro interesse;
  2. consente la raccolta dei loro feedback, che siano diretti o tramite commenti sui social, permettendo così ai curatori di individuare punti deboli su cui effettuare migliorie. 

Galleria degli Uffizi, Firenze

La Galleria degli Uffizi di Firenze è uno dei musei più famosi al mondo, con una pagina Instagram che conta 665k follower.

Nonostante un’ottima presenza digitale – su Instagram è tra i musei più seguiti al mondo, contando oggi ben 678mila follower -, durante il 2020 il museo si è lanciato nella creazione di un profilo su TikTok, la piattaforma più in voga tra i giovanissimi.

Una bella ambizione: il linguaggio e il target di questa piattaforma non sono tra i più facili da progettare e da coinvolgere, ma in fondo è proprio questa la sfida di ogni piattaforma social. 

Inoltre, la visita del museo da parte di Chiara Ferragni è stata il fattore scatenante di un successivo boom di visite, grazie ovviamente alla fortissima presenza social della influencer.

Chiara Ferragni agli Uffizi davanti alla Nascita di Venere di Sandro Botticelli
Chiara Ferragni agli Uffizi davanti alla Nascita di Venere di Sandro Botticelli https://www.instagram.com/p/CCu_l3JIvFn

Per molti questa situazione ha rappresentato un elemento negativo, in quanto le persone sono state spinte alla visita degli Uffizi solamente dalla presenza di Chiara, ma questo aspetto è solo la facciata.

Attraverso un solo post, poi rilanciato dall’account Instagram della Galleria degli Uffizi, Chiara Ferragni ha comunque messo in circolazione un’idea che si è diffusa tra i suoi milioni di follower giovani e adulti, italiani o stranieri.

Che la visita sia spontanea o che sia “spinta” dai social porta comunque a quella condivisione digitale che oggi rappresenta il fattore cardine per le entità museali.

E poi chissà, magari anche quella persona che all’inizio non pensava minimamente di visitare un museo, potrebbe ritrovarsi invece in mondo appassionante, in un’esperienza da voler replicare.

Villa romana di Oplontis, Torre Annunziata

Un case study interessante per la virtualizzazione ben riuscita di un sito archeologico è sicuramente il DAPO Project, eseguito dagli studenti dei Politecnici di Milano e Torino.

Il sito in questione è la villa romana di Oplontis, a Torre Annunziata, parte del famosissimo sito archeologico di Pompei. Questo progetto fa capire come l’entrata in gioco di tecnologia e design siano un beneficio per rispondere alle esigenze del visitatore moderno. 

Il progetto prevede delle esperienze interattive, sia online che in situ, grazie anche a un’app integrata con contenuti audio per guidare il visitatore all’interno del sito. 

Non solo, alcuni reperti sono stati dotati di sensori che, attivandosi con l’avvicinamento dell’individuo, producono interazioni sonore e visive. Il progetto è addirittura stato affiancato da Google Arts & Culture.

Ma in che modo una passeggiata tra le rovine di una villa è stata resa interattiva?

Tramite l’app è possibile scegliere tra quattro figure diverse, le quali avevano convissuto nella villa fino all’eruzione del Vesuvio, provenienti da diverse categorie sociali (il padrone, l’ospite, lo schiavo e l’artista).

Ognuno di questi personaggi guida il visitatore negli ambienti della villa dove verosimilmente si muoveva, raccontando in prima persona la propria esperienza. Questo metodo di “connessione” attiva tra visitatore e luogo visitato è una novità che dovrebbe essere applicata universalmente. 

La maggiore chiarezza dei contenuti permette ai professionisti del settore di rendere disponibili le loro conoscenze agli individui inesperti in materia. La scelta (anche multipla) dei quattro personaggi permette una libertà assoluta di movimento all’interno del sito, senza percorsi obbligati o audioguide numerate. 

Questa fruizione attiva e “fuori dagli schemi”, stile walkthrough, ha avuto infatti come risultato un maggiore successo e interesse da parte del pubblico.

Gli obiettivi del DAPO Project per comunicare il patrimonio culturale

Sono questi gli obiettivi del DAPO Project: rendere il patrimonio più “smart”, portare l’esperienza di visita dal lineare e passiva a circolare e attiva, trasformare il visitatore da spettatore a protagonista. 

Ma nel sito di Oplontis la tecnologia non si è fermata qui. In collaborazione con la University of Texas at Austin è stato possibile effettuare un recupero digitale di opere andate perdute e addirittura una ricostruzione 3D degli ambienti del sito, all’interno dei quali è possibile spostarsi semplicemente usando il mouse.

Conclusioni

In questo articolo abbiamo parlato di virtualizzazione delle visite museali, coinvolgimento degli influencer nel marketing museale, interattività delle esperienze e modelli 3D dei siti archeologici.

Tutti questi elementi per comunicare il patrimonio culturale, se applicati almeno in parte in ogni ente museale o sito archeologico, aiuterebbero gli stessi a raggiungere l’obiettivo principale per cui sono nati: essere vissuti.  

Fonti consultate

  • A. D’Eredità, A. Falcone, D. Pate, P. Romi (2016), Strategie di divulgazione dell’archeologia online: metodologie, strumenti e obiettivi. Dalla redazione del piano editoriale alla misurazione dei risultati, in  «Archeologia e Calcolatori»,
    n.27, 2016, 331-352
  • Francesca Pontani (2020), Archeologia e Comunicazione Digitale, in ArcheoTime (canale YouTube), registrazione del seminario tenuto il 27 febbraio 2021 presso la Sala Sant'Angelo del Museo delle Necropoli Rupestri di Barbarano Romano (VT), https://www.youtube.com/watch?v=ARVcdpyTMXU
  • John R. Clarke, Enrico Ferraris, Massimo Osanna, Team DAPO modera Gian Luca Grigatti (2021), Archeologia digitale per la valorizzazione del patrimonio culturale, in Politecnico di Torino (Canale YouTube), 15 novembre 2020, https://www.youtube.com/watch?v=YKbDLq_WvFE
  • Sito ufficiale di Pompei con pagina dedicata alla Villa di Oplontis, http://pompeiisites.org/oplontis/

Telemedicina, e-Health e ICTs. Un futuro sempre più digitalizzato in ambito medico-sanitario

Avete mai sentito parlare di Telemedicina, e-Health, ICTs? Sono probabilmente termini ancora poco noti tra le persone. Eppure, potrebbero essere la chiave giusta per una svolta davvero importante in ambito medico-sanitario, e non solo.

In questo articolo andremo ad approfondire tali concetti. Vediamo quindi insieme cosa significano, quali sono i loro obiettivi, le loro potenzialità e come posso essere strumento di innovazione socio-sanitaria.

Cos’è la Telemedicina?

Secondo quanto riportato dal sito del Ministero della Salute, per Telemedicina si intende

 

«una modalità di erogazione di servizi di assistenza sanitaria, tramite il ricorso a tecnologie innovative, in particolare alle Information and Communication Technologies (ICT), in situazioni in cui il professionista della salute e il paziente (o due professionisti) non si trovano nella stessa località»

 

La Telemedicina, in quanto tale, permette quindi di raggiungere un nuovo consolidamento del rapporto tra medico e paziente, e tra i diversi professionisti sanitari. 

Non deve quindi essere intesa come una modalità sostitutiva della medicina tradizionale, ma come un strumento aggiuntivo che, anzi, rafforza quanto già presente sul territorio.

Come può esserci utile la Telemedicina?

Tra i maggiori benefici che possiamo trarre della Telemedicina troviamo:

  1. Equità di accesso all’assistenza sanitaria
    Questo rappresenta un punto importante se pensiamo a tutte quelle zone con scarsi collegamenti (isole, zone di montagna, aree rurali).
  2. Migliore qualità dell’assistenza garantendo la continuità delle cure
    Il paziente ha la possibilità di essere assistito a casa propria, senza che il medico sia presente di persona. A questo proposito possiamo parlare di Telemonitoraggio, soluzione pratica soprattutto per malati cronici. Questo porta inoltre ad alleggerire il carico degli ospedali e di tutte le strutture sanitarie presenti sul territorio.
  3. Migliore efficacia, efficienza, appropriatezza
    Maggiore comunicazione tra i diversi attori con conseguente riduzione delle ospedalizzazioni, riduzione dei tempi di attesa, ottimizzazione dell’uso delle risorse disponibili.
  4. Contenimento della spesa sanitaria e contributo all’economia
    I nuovi modelli organizzativi basati sulla Telemedicina implicano una gestione razionale dei processi sociosanitari con un conseguente impatto sul contenimento della spesa sanitaria, riducendo il costo sociale delle patologie.

Come si articola la Telemedicina?

La Telemedicina si articola principalmente su tre fronti: telemedicina specialistica, telesalute e teleassistenza. Vediamoli nel dettaglio.

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Grafico classificazione

Telemedicina Specialistica

La Telemedicina Specialistica comprende i servizi che avvengono in una disciplina medica specifica. Si struttura a sua volta in sottocategorie e può avvenire tra medico e paziente, oppure tra medici specialisti. Consiste nell’erogare prestazioni mediche in ambito specialistico in via telematica.

Per fare un esempio, una visita dermatologica effettuata da remoto rientra in questa categoria: paziente e medico, o medici specialisti tra loro, interagiscono a distanza. È possibile scambiarsi documenti, informazioni, e dati relativi al servizio erogato.

Telesalute

La Telesalute è un’altra macroarea. È una modalità alternativa a quelle tradizionali con la quale il medico (solitamente di medicina generale) gestisce un paziente.

Anche questa avviene a distanza, garantendo al paziente una maggiore autonomia e alle strutture sanitarie un’organizzazione più semplificata. Si serve di nuove tecnologie e strumenti per monitorare, interpretare, diagnosticare, e curare.

Come già accennato, il Telemonitoraggio in questo senso si dimostra fondamentale. I pazienti che maggiormente beneficiano della telesalute sono i malati cronici e gli anziani.

Teleassistenza

Infine, la Teleassistenza. Questa entra a far parte dell’ambito socio-assistenziale, piuttosto che sanitario (come la telesalute). L’obiettivo in questo ambito è quello di fornire assistenza domiciliare alle persone fragili, gli anziani, i disabili. Essi infatti necessitano non solo di cure mediche, ma di una vera e propria presa in carico della persona a 360°.

Tutto questo grazie a strumenti e tecnologie sempre più personalizzate che permettono la giusta continuità assistenziale.

Per fare un esempio, una persona con ridotta mobilità che ha bisogno di essere assistita a casa, potrà in questo modo rivolgersi ad un operatore sanitario in caso di necessità 24 ore su 24.

La persona viene dotata di un dispositivo telefonico dotato di un piccolo radiocomando da tenere con sé per eventuali emergenze.

Il significato di e-Health e ICTs

Due concetti chiave che affiancano quello della telemedicina sono “e-Health” e “ICTs”.

  1. Il termine e-Health si riferisce all’interazione di un individuo (consumatore, paziente, o operatore sanitario) con le tecnologie digitali di informazione e comunicazione (ICTs), quali internet e dispositivi mobili. 
  2. Il termine ICTs sta infatti per “Information and Communication technologies”. Si riferisce a tutto l’insieme delle tecnologie che hanno la funzione di elaborare e comunicare l’informazione tramite i mezzi digitali, il computer e le tecnologie informatiche correlate (hardware e software ), accessori e servizi per lo scambio delle informazioni.
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Grafico delle ICTs

Cosa si intende con il termine e-Health

La parola “e-Health” si compone di “Health” che dall’inglese si traduce “salute”, e la “e” che può assumere vari significati.

Da una parte può voler rimandare al concetto di “elettronico”, dall’altra parte invece si potrebbe associare tale lettera a parole che caratterizzano meglio il concetto di e-Health come efficienza, empowerment, etica, equità, educazione e evidence-base.

In generale, possiamo affermare che il termine comprende una vasta gamma di significati e servizi che spaziano dalla medicina e dall’assistenza fino all’information technology. e-Health è da considerarsi come un grande ombrello sotto il quale troviamo vari componenti.

I cosiddetti servizi "elettronici"

Un ruolo chiave, ad esempio, è rappresentato dalla cartella clinica elettronica e dal fascicolo sanitario elettronico. Questi sistemi permettono la raccolta di dati sulla storia clinica dei pazienti, sui loro esami e sulle terapie in corso.

È possibile così archiviare elettronicamente molte informazioni per aiutare il medico a prendere le migliori decisioni per la cura, e il paziente ad avere diretto accesso alle sue stesse informazioni. Un vantaggio che ne consegue è l’eliminazione della documentazione cartacea, insieme a molti altri.

L'interoperabilità tra sistemi

Un altro componente è l’interoperabilità tra sistemi, ovvero l’identificazione di standard nella raccolta dei dati. Ciò renderebbe possibile, per esempio, accedere ai dati di un paziente ricoverato in un ospedale e proveniente da una differente area geografica nella quale è in uso un diverso sistema di cartella clinica elettronica. 

Allo stesso modo consentirebbe agli ospedali stranieri di consultare la storia clinica di un cittadino italiano quando egli si trova all’estero per viaggio o per lavoro.

La prescrizione elettronica

Infine, e-Health comprende la prescrizione elettronica: le ricette passano dal formato cartaceo a quello elettronico. Questa “dematerializzazione” consente molteplici impieghi della ricetta stessa, come il monitoraggio delle cure.

Medico che scrive al computer

I vantaggi dell'e-Health

I vantaggi che porta l’ e-Health sono molteplici. Tra i più importanti ci sono:

  1. Supporto alla gestione di patologie croniche
  2. Maggiore efficienza e qualità delle cure (maggiore accuratezza delle diagnosi, maggiore precisione delle procedure mediche, ecc.)
  3. Riduzione del costo economico delle cure

Tutti questi strumenti lavorano in sincronia per portare all’obiettivo più alto del cosiddetto “Patient’s Empowerment”.

Quest’ultima nozione, a sua volta, rimanda a una ridefinizione dei rapporti paziente-professionista sanitario: tradotto dall’inglese significa letteralmente “potenziamento del paziente”. 

Consiste nel fornire al paziente più strumenti possibili affinché esso possa prendere decisioni più consapevoli circa il suo benessere. Il paziente partecipa più attivamente alle proprie cure, informato ed educato dai medici. E, paradossalmente, la distanza tra la persona e il medico diminuisce.

Si ha così una maggiore educazione sanitaria e una riduzione delle diseguaglianze culturali e sociali.

Le conseguenze del Covid-19 sulla Telemedicina

La pandemia, aimè, merita una menzione a parte. L’emergenza sanitaria è stata l’occasione per sperimentare soluzioni che hanno consentito di contenere il contagio, ridurre le ospedalizzazioni e gestire i pazienti sul territorio. 

Data la mancanza di un trattamento medico efficace per contrastare il virus, le misure sanitarie per contenere il contagio si sono focalizzate principalmente sul distanziamento sociale, sull’uso della mascherina e sull’obbligo di effettuare un periodo di quarantena da parte delle persone infette.

Mascherina e computer

Le misure di prevenzione

In ambito ospedaliero e ambulatoriale le misure di prevenzione sono state ancora più pesanti: l’accesso alle strutture ospedaliere per le visite mediche, per i trattamenti e per accertamenti non urgenti, è stato interrotto. 

Si sono create così lunghe liste di attesa e ritardi potenzialmente pericolosi. Di fatto, è stato necessario escogitare nuovi modi di interazione tra il medico e il malato.

A questo proposito, i sistemi di telemedicina hanno aperto nuove strade nella gestione sanitaria dei pazienti durante situazioni di emergenza, come proprio quella da Covid-19. Nei tempi del Covid-19, la telemedicina ha rappresentato una delle soluzioni più efficaci per la gestione, consentendo di ridurre appunto l’accesso alle strutture ospedaliere e concorrendo quindi al contenimento della diffusione del contagio.

Con la pandemia e i problemi di comunicazione e interazione legati ad essa, la ricerca si è spinta molto verso l’utilizzo di nuove strategie per poter comunque mantenere l’attenzione su tutti i pazienti. Gli ospedali hanno di fatto dirottato l’attenzione verso i nuovi malati (persone che hanno contratto il virus in forma grave).

La realtà virtuale in ambito medico

La realtà virtuale, in questo caso la creazione di spazi virtuali che riproducono fedelmente un contesto reale di tipo ospedaliero-ambulatoriale, può far sì che tutti i pazienti vengano “considerati”.

Per fare alcuni esempi, ci sono molte aree mediche che hanno necessitato una continuità medico-sanitaria.

Negli ultimi anni l’uso della realtà virtuale è stato infatti proposto come nuova soluzione tecnologica in diverse specialità mediche tra cui la neuroriabilitazione, la salute mentale, il dolore cronico, o i disturbi alimentari.

La realtà virtuale è una tecnologia interattiva che offre la possibilità di creare ambienti virtuali con caratteristiche specifiche disegnate su indicazione dei clinici o dei ricercatori a seconda degli obiettivi terapeutici.

Conclusioni

Riusciamo a questo punto a capire l’importanza di questi tre concetti al giorno d’oggi e nel futuro più prossimo. Sono le prossime frontiere in ambito socio-sanitario. Quelle che ci permetteranno una sempre più efficiente ed efficace gestione dei pazienti e organizzazione sanitaria.

La coniugazione della medicina e della tecnologia, affiancata dal progredire delle nozioni scientifiche, porterà molteplici vantaggi per tutti. 

Cure sempre più individuali e personalizzate sulla base delle esigenze dei singoli individui. Maggiore efficienza delle strutture sanitarie si accompagnerà a una maggiore efficacia della gestione dei pazienti.

Inoltre, non meno importante, i caregiver potranno inserirsi con più facilità nella gestione assistenziale e sanitaria dei propri cari. 

Si viene a creare così un triangolo di figure in maggiore sincronizzazione tra loro: paziente, medico, caregiver. È come una formula magica per migliorare il funzionamento di un sistema già presente sul territorio.

Medico con lo smartphone

La telemedicina come strumento di inclusione sociale e culturale

Alcuni potrebbero pensare alla telemedicina come a un aumento delle distanze. Come qualcosa che porta inevitabilmente le persone ad allontanarsi tra loro, con un risvolto negativo sulla qualità dei servizi erogati. Ma, al contrario, la Telemedicina e i suoi strumenti possono ridurre queste distanze.

Possono garantire equità di accesso alle cure a tutti i cittadini, indipendentemente dal luogo di provenienza, dallo stato sociale, dall’etnia, dall’età.

La Telemedicina, pertanto, esce dall’ambito puramente sanitario e si pone come strumento per una maggiore inclusione sociale e culturale.

Tuttavia bisogna considerare alcuni aspetti limitanti della telemedicina. 

Vantaggi e svantaggi della telemedicina

L’accesso alla telemedicina, come ad altri strumenti di monitoraggio domiciliare, sembra non essere disponibile per tutti i pazienti. Questo porta inevitabilmente a una disparità nell’assistenza e a importanti disuguaglianze di salute.

Inoltre, si aprono nuove problematiche legate alla privacy, all’accesso e al potenziale abuso dei dati dei consumatori. È necessario pertanto considerare gli aspetti etici legati a queste nuove tecnologie e alla promozione di criteri di equità per evitare che l’e-Health diventi un ulteriore fattore di discriminazione sociale, economica, e politica.

Altra problematica potrebbe essere rappresentata dalla lingua inglese, spesso usata in ambito tecnologico e spesso scarsamente parlata nel nostro paese, soprattutto nella popolazione anziana.

Per concludere, la telemedicina è senza dubbio un mezzo potente per il futuro, ma che al giorno d’oggi richiede sforzi per superarne le problematiche a essa legate e lungimiranza per le sue potenzialità.

Errori di comunicazione che hanno fatto la storia

Piccoli equivoci senza importanza

Quante volte ci è capitato di pensare che non fosse solo un caso, quanti rimpianti pensiamo di doverci portare avanti per delle decisioni che abbiamo preso in momenti in cui forse non avremmo dovuto.

Antonio Tabucchi, in uno dei suoi libri, si interroga sulle possibilità che offre la vita, sui bivi, sui percorsi, sulle scelte fatte e sui ruoli intrapresi. 

Lui chiama “piccoli equivoci” gli eventi guidati dal fato o dal caso che determinano la nostra vita. In molti dei suoi racconti Tabucchi propone una riflessione sulle varie visioni della vita: non ce n’è una sola, ma ognuno la vede a modo suo.

«La vita è un appuntamento, so di dire una banalità, Monsieur, solo che noi non sappiamo mai il quando, il chi, il come, il dove. E allora uno pensa: se avessi detto questo invece di quello, o quello invece di questo, se mi fossi alzato tardi invece che presto, o presto invece che tardi, oggi sarei impercettibilmente differente, e forse tutto il mondo sarebbe impercettibilmente differente […] Un appuntamento e un viaggio, anche questa è una banalità, mi riferisco alla vita, naturalmente, chissà quante volte è stato detto; e poi nel grande viaggio si fanno dei viaggi, sono i nostri piccoli percorsi insignificanti sulla crosta di questo pianeta che a sua volta viaggia, ma verso dove? È tutto un rebus […] E poi, sa com’è la vita, è come una tessitura, tutti i fili si intrecciano, è questo che un giorno vorrei capire, vedere tutto il disegno […] la vita è un ingranaggio, una rotella qua, una pompa là, e poi c’è una cinghia di trasmissione che collega tutto e trasforma l’energia in movimento, proprio come nella vita, un giorno mi piacerebbe capire come funziona la cinghia di trasmissione che lega tutti i pezzi della mia vita, il concetto è lo stesso, bisognerebbe aprire il cofano e stare lì a studiare il motore che ronza, collegare tutto, tutti gli istanti, le persone, le cose»

Antonio Tabucchi, Scrittore e Critico Letterario

Cosa sarebbe successo se

In queste parole, che si trovano nel terzo racconto del libro, si può capire l’interpretazione di Tabucchi riguardo la vita, intesa come un rebus dove tutto è affidato al caso. 

Per lui è centrale il “cosa sarebbe successo se”, così come il fascino attraente delle strade non percorse, del non detto e dell’insopprimibile voglia di riscrivere le nostre vite.

I personaggi di queste storie non prendono scelte, ma sono guidati dagli eventi.

Non si può infrangere il destino perché la storia è già scritta, perché la vita è determinata da quei piccoli equivoci senza importanza, che lavorano nell’ombra mettendo in discussione le nostre certezze, lasciando solo il dubbio.

Come si dice nel primo racconto che dà il nome alla raccolta: «tutto era davvero un piccolo equivoco senza rimedio che la vita si stava portando via, ormai le parti erano assegnate ed era impossibile non recitarle». 

Antonio Tabucchi ci invita a riflettere sull’ironia della vita: non siamo artefici del nostro destino, ci ritroviamo gettati in balia del disordine degli equivoci che per lui sono “senza importanza” proprio perché se qualcosa deve succedere, prima o poi accadrà, indipendentemente da noi e dalle nostre volontà. 

Sono “senza importanza” perché sono eventi così piccoli e irrilevanti rispetto al lungo corso della vita, che comunque è già stato deciso.

Antonio Tabucchi - "Piccoli equivoci senza importanza"

Piccoli equivoci che hanno avuto una grande importanza

Quanti errori invece, se ci pensiamo bene, sono stati fatti ed hanno cambiato per sempre la storia. Tante volte non si è trattato di grandi imprese o lampi di genio, ma proprio di quei “piccoli equivoci” a cui Tabucchi non dava importanza. 

È impossibile pensare di poter avere il controllo su tutto. 
Chissà, magari nemmeno il così tanto discusso destino riesce a stare al passo con le nostre decisioni irrazionali, prese senza pensarci due volte. O anche semplicemente con l’evoluzione che abbiamo fatto e continuiamo a fare nel tempo. Perché non c’è storia senza evoluzione. 

Ci sono tanti esempi di piccoli errori, malintesi ed equivoci, che invece hanno avuto importanza, a differenza di quello che ci vuole far credere il grande Tabucchi. 

Alcuni di questi sono stati fatti casualmente, ma tanti altri vengono pensati nei particolari per essere insediati nella società di oggi, in cui è possibile diffondere qualunque cosa ad una velocità capillare scatenando effetti inimmaginabili.

Le innumerevoli porte chiuse di JK Rowling

Basti pensare a JK Rowling: forse non tutti sanno che la bozza di Harry Potter era stata rifiutata da più di dieci case editrici prima di vedere la luce e diventare una delle saghe più conosciute al mondo. 

Non potremo mai sapere cosa sarebbe successo se la scrittrice avesse fatto colpo alla prima volta o se avesse deciso di demordere dopo così tante delusioni.

Le origini della ricetta di Coca Cola

Dietro alla famosa bibita conosciuta con il nome di Coca Cola c’è un piccolo segreto. 

La Coca-Cola nacque l’8 maggio del 1886 e a crearla fu il farmacista John Stith Pemberton, grazie all’uso di una caldaia. Il suo obiettivo non era quello di creare una bevanda ma uno sciroppo contro il mal di testa, servendosi di estratti vegetali e noci di cola. 

Quando aggiunse della soda al suo sciroppo si rese conto che la Coca-Cola si trasformava in una bibita piacevole e dissetante. Ed è così che nacque la bevanda la cui ricetta rimane segreta ancora oggi, custodita in una cassetta di sicurezza di una banca di Atlanta. 

Se non ci fosse mai stata questa intuizione da parte del farmacista, chissà se avremmo mai assaggiato quella che oggi è una delle bevande più amate.

Sui social gli errori sono sempre un caso?

Il caso Tom Holland

L’attore britannico Tom Holland, tra i protagonisti dei film targati Marvel, è conosciuto per il fatto che più volte, soprattutto sui social, si è lasciato sfuggire delle anticipazioni che non era autorizzato a trapelare.

È tutto un caso o un’autentica strategia studiata a tavolino?
Un motivo c’è se colui che interpreta Spider-man ha acquisito la simpatica nomea di Spoiler-man. Ma pensare che un attore del suo calibro possa permettersi di essere così “distratto” è da escludere dalle possibilità. 

Al giorno d’oggi è chiaro che i social media vengano utilizzati anche a scopo pubblicitario, perché rappresentano il mezzo di diffusione forse più veloce e potente che abbiamo a disposizione.

La viralità dei contenuti sui social media

social network sono utilizzati per lo scambio di notizie e di opinioni su ogni argomento e per molte persone sono diventati la fonte primaria presso cui informarsi.

social media rappresentano un grande strumento di marketing, utile per pubblicizzare le attività, ampliare la rete di contatti ed interagire direttamente con il pubblico.

Tanti contenuti online, su piattaforme come Tik Tok, Facebook e Instagram, vengono architettati appositamente per essere resi virali e fare scalpore. 

Quasi niente è lasciato al caso sui social. Si tratta di un modo di comunicare che non nasce in una notte, ma che è stato studiato ed analizzato.

Sul web si parla di viralità quando un contenuto viene diffuso ad una velocità e in un modo incontrollabile. Personaggi che fino a poco prima erano sconosciuti e sono diventati famosi nel giro di poco tempo ne sono un esempio lampante.

Lo strano caso del cinguettio degli Uffizi

Lo scorso 17 novembre, l’account Twitter ufficiale degli Uffizi ha diffuso in rete un post enigmatico, che non aveva niente a che vedere con il tono e i contenuti a cui è abituata la community social del museo fiorentino.

Il tweet con la strana scritta “Plllpppplllllpplpha generato in qualche ora centinaia di condivisioni e commenti: gatti che camminano sulla tastiera, gif e meme.

Successivamente gli Uffizi hanno pubblicato una risposta che ha divertito i molti seguaci: “Grazie per aver partecipato al primo contest dadaista. La #Plllpppplllllpplp Community è ufficialmente nata. Alla prossima!!! Rgrrfyyytffdsghh”.

Il post è stato un genuino “errore” compiuto da colui che è stato definito il social media manager più giovane di sempre: pare che durante l’iniziativa Uffizi Kids, un bambino abbia preso il cellulare di un’operatrice.

Tweet Gallerie Uffizi - #Plllpppplllllpplp Community

Conclusioni

Certo, gli errori sono comprensibili anche nel web, anzi soprattutto in esso, perché talvolta la fretta di condividere e di far sapere al mondo sembra più importante della veridicità dei fatti, per cui si tende a preferire la fugacità ad una maggiore cura ed attenzione.

In molti casi, come abbiamo visto, si tratta di una geniale e camuffata strategia.
Tante altre volte, invece, è necessario riconoscere che errare è umano. Anche in un mondo in cui le macchine, i computer e le tecnologie stanno iniziando ad assumere sempre più potere a discapito dell’uomo. 

Fonti

Sitografia

In che modo i colori esprimono la personalità di un brand?

Da sempre siamo stati abituati a fermarci di fronte a una luce rossa perché trasmette urgenza e pericolo, mentre una luce verde promette apparente sicurezza. Vi siete mai chiesti il perché?

Ogni colore viene percepito in maniera innata e trasmette sensazioni collegate a sentimenti o reazioni umane. Il colore si ricorda più facilmente di una parola o una  forma

In questo articolo scopriamo come i colori possono esprimere la personalità di un brand e influenzarne la percezione.

Il fenomeno della persuasione stimola i consumatori all’acquisto

«Immaginiamo per un momento come sarebbe la vita in un mondo senza colore, un mondo in cui potessimo vedere solo in bianco e nero. Ci è quasi difficile immaginarlo, perché è proprio il colore che definisce il nostro mondo.»

Laurie Pressman, Vicepresidente del Pantone Color Institute

Il colore è un elemento identificatore, ci induce a sentire una connessione con l’ambiente, è un mezzo prezioso per esprimere e trasmettere idee.

Ognuno di noi attribuisce ai colori emozioni e sensazioni differenti, ma alcune caratteristiche vengono percepite in modo univoco.

Ad esempio, quando osserviamo un prodotto, tutti noi inconsciamente ci soffermiamo sull’aspetto visivo, che, rispetto al tatto e all’olfatto, ci influenza maggiormente.
Lo stimolo visivo è il primo aspetto sensoriale che ci orienta nella scelta

Per ottenere un rapporto di fiducia e stima reciproca con l’acquirente, un brand ha bisogno di persuaderlo e di attirare la sua attenzione. Come vedremo, il colore aumenta dell’80% il riconoscimento di un marchio: è uno strumento necessario per riuscire a farsi notare.

Vediamo in che modo un colore, attraverso la sua forte risonanza, possa diventare l’essenza stessa del brand.

Blue Tiffany, l’unicità di un colore inconfondibile

Blue Tiffany, questo nome riconduce alla famosa gioielleria Tiffany & Co. di New York.
È il colore dell’amore e delle emozioni, così iconico, elegante, fresco e delicato che non può essere sminuito.

Il colore venne scelto dal fondatore Charles Lewis Tiffany per la copertina del Blue Book, una raccolta annuale di gioielli.

Protetto da copyright, il Blue Tiffany viene prodotto con il numero 1837, che corrisponde all’anno di fondazione di Tiffany.

Unico nel suo genere, è impossibile che si trovi nelle mazzette di pantone, perché è legato in maniera indissolubile alla brand awarness di Tiffany.

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Come avviene la scelta di un colore nei loghi

Il colore è il fattore principale nel design di un logo, biglietto da visita che trasmette l’identità di un’azienda. Vediamo come vengono scelti i colori dalle aziende più popolari e in che modo questi colori esprimono la personalità del brand.

Rosso

Il rosso è un colore vitale, attira immediatamente l'attenzione, stimola impulsività e stuzzica l'appetito. È molto usato dai brand alimentari (Coca-Cola, Netflix, Kellogg’s) ma anche nelle insegne per saldi e promozioni

Giallo

Il giallo è associato all'energia, all'attività mentale e all'azione (Shell, Eni, National Geographic).

Arancione

L'arancione è il colore della creatività e dell'energia mentale, richiama positività ed empatia.  È adatto per risaltare elementi grafici, come pulsanti di call to action o box di offerte.

Verde

Il verde evoca tranquillità, pace, salute e freschezza.  È perfetto per brand biologici e green, ma è molto apprezzato anche da marchi che vogliono ispirare fiducia (Whatsapp, Starbucks e Android).

Blu

Il blu è il colore preferito dal 42% della popolazione mondiale e ispira lealtà, calma, stabilità e pensiero ponderato. Dalle banche alla Polizia di Stato, è indubbiamente la scelta di chi vuole farsi accettare dal pubblico (Facebook, Samsung, LinkedIn).

Viola

Il viola è strettamente legato all’eleganza, al lusso, all’introspezione, ma anche al mistero. Colpisce maggiormente un target femminile, per questo ispira anche sensualità ed eleganza (Milka, Twitch, FedEx).

Marrone

Il marrone evoca calore, artigianalità, comfort e serenità. A seconda dell’intensità può trasmettere un’idea di rustico o di vintage (Ups, Louis Vuitton, M&M’s).

Argento

L’argento è associato al metallo ed esprime resistenza e solidità. Molte case automobilistiche o aziende informatiche prediligono questa tonalità di colore (Audi, Apple, Wikipedia).

Bianco e Nero

Il bianco e il nero spesso sono abbinati insieme per ottenere un’immagine minimalista, raffinata, lussuosa e pura (Puma, Adidas, Nike).

È sempre stata una questione di genere

Quando un brand vuole comunicare qualcosa, deve tenere in considerazione le preferenze e i bisogni del target di riferimento.

In Associazione dei colori, uno studio condotto da Joe Hallock, emerge come in entrambi i sessi il colore preferito sia il blu.

Al contrario il viola risulta uno dei colori meno favoriti dagli uomini, ma che piace molto alle donne.

Il sesso femminile predilige colorazioni più tenue e con tonalità chiare, mentre quello maschile preferisce colori intensi e dalle tonalità più scure.

Infine, esistono differenze anche in base al nome che viene associato ai colori. Se gli uomini accostano facilmente i diversi colori sotto grandi macronomi, le donne utilizzano moltissimi nomi che si discostano per tonalità.

In molti casi, alcuni brand escludono a priori la possibilità di utilizzare varie sfumature di colori, poiché potrebbero risultare “fuori target”: vediamo un esempio.

Secondo Nintendo l’estetica di GameCube risultava “troppo femminile”

Il 18 novembre 2001 uscì Nintendo GameCube in America, due mesi dopo il lancio originale in Giappone. La console non riscosse grande successo, ma l’iconico colore indaco che la caratterizza ha certamente contribuito a far parlare di sé.

Sin dal principio il reparto marketing di Nintendo of America non era affatto soddisfatto del colore della console, e cercò in tutti i modi di cambiare questo aspetto.

«Era un colore molto… femminile. Non sembrava mascolino. Pensavamo che avremmo collezionato delle opinioni negative dalla stampa solo per il colore.»

Color forecasting e la previsione di tendenze

Oggi viviamo di colori, cerchiamo di essere sempre al passo con la moda e i tempi.

Professionisti provenienti da tutto il mondo sfruttano conoscenze collettive per prevedere quali colori saranno in tendenza in un futuro prossimo.

La previsione del colore comprende ricerca e scienza: è un insieme di tecnica e arte.

Esperti del colore collaborano per individuare le tendenze cromatiche future, attraverso la ricerca di sondaggi rivolti al target e test di suddivisione dei prodotti.

Questo è fondamentale per affinare e prevedere le preferenze dei consumatori al momento dell’acquisto di un determinato prodotto o servizio: è una potente strategia che permette ai brand di pianificare in anticipo le mode.

L’ossessione di dover essere sempre in palette

Ti è mai capitato passare le giornate a scrollare Instagram in cerca dell’outfit perfetto? O di riscoprire improvvisamente quel vestito rimasto sepolto nell’armadio per anni?
Ecco, il colore ha un ruolo chiave soprattutto nel settore del fashion.

Non è fondamentale acquistare costantemente nuovi capi per stare al passo con le ultime tendenze cromatiche, come sottolinea Laurie Pressman, vicepresidente del Pantone Color Institute.

«Nel nostro ruolo di risorsa colore non stiamo suggerendo che i consumatori sostituiscano tutto il loro armadio.»

Laurie Pressman

Come spesso accade, i consumatori non dovrebbero sentire un senso di oppressione nei confronti delle continue tendenze provenienti dal settore moda, ma dovrebbero optare e scegliere combinazioni di tessuti e colori che portano felicità e buon umore.

L’industria del fashion potrebbe perciò evitare di proporre nuove palette colore e, di conseguenza, di coltivare un irrefrenabile desiderio di acquisto da parte dei consumatori.

Conclusioni

Già da piccoli sapevamo inconsapevolmente che il colore fosse una parte essenziale della nostra vita. Crescendo abbiamo maturato la consapevolezza emotiva delle componenti cromatiche.

La scelta del colore orienta in modo significativo l’efficacia del design e definisce l’immagine di un marchio.

Per padroneggiare il colore servono conoscenza, esperienza, giudizio e intuizione.

Esistono infinite sfumature capaci di influenzare le nostre scelte quotidiane, ma questo spesso lo diamo per scontato.

Come scrivere una newsletter efficiente e accattivante?

Newsletter: tra strategia e creatività

Le newsletter sono degli strumenti validi ed efficaci per farsi conoscere, ma dobbiamo comprenderne il corretto utilizzo per non farle diventare “spam” inutili.

In questo articolo capiremo insieme come creare newsletter dinamiche e accattivanti: buona lettura!

Quando possiamo chiamare un’email newsletter?

Un’email acquisisce il significato di newsletter nel momento in cui viene inviata periodicamente a tutti gli utenti che hanno lasciato il proprio indirizzo. Essa deve catturare in brevissimo tempo l’attenzione, per non venire cestinata o dimenticata.

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Ecco 4 step per rendere una semplice email un oggetto di marketing per la tua azienda.

1. La profilazione del cliente

Tutto parte dalla profilazione dei propri clienti, ovvero dalla creazione di una banca dati ben strutturata con tutti i contatti di cui siamo in possesso. Usualmente siamo in grado di avere questi dati perché i clienti compilano, per esempio, un form sul sito aziendale. Per incentivare gli utenti a lasciare la propria email possiamo utilizzare alcune strategie, come promozioni o regali.

2. La struttura del testo

Al giorno d’oggi possiamo trovare veri e propri software di scrittura che renderanno sicuramente più semplice costruire newsletter professionali e veloci.

Allo stesso tempo una scrittura più creativa, magari grazie all’aiuto di un copywriter, può decisamente svoltare la nostra intera campagna.

I software sopra citati sono molto utili ma non tengono conto, ossia di alcune ricerche preliminari che un professionista potrebbe fare, oppure di tutta la parte creativa necessaria a differenziarsi dagli altri.

In conclusione, se tutti usassimo questi programmi avremmo newsletter molto simili fra loro e nessuna spiccherebbe rispetto alle altre.

Andiamo ora a vedere alcuni elementi testuali che caratterizzato l’esito finale di una newsletter:

  1. L’OGGETTO: sì esatto, proprio quel corpo di testo che ci viene sempre ricordato di inserire prima di inviare un’email. Può sembrarci inutile, di poca importanza, ma invece è proprio con quelle poche parole che ci giochiamo tutta la partita. Sbagliare la compilazione di questo campo potrebbe, infatti, vanificare l’intero progetto. È con l’oggetto della nostra e-mail che attiriamo o meno l’attenzione del nostro target. Questa breve frase deve essere chiara, semplice e attraente. Deve incuriosire il lettore, portandolo a voler approfondire gli argomenti, e non deve contenere parole o espressioni riconducibili a possibili spam (gratis, regalo, ordina subito, chiama gratis etc.). Secondo alcuni studi le parole contenute dovrebbero essere fra le 6 e le 10, e preferibilmente non essere scritte tutte in maiuscolo, in quanto sembreremmo fortemente arrabbiati.
  2. IL CORPO DI TESTO: per scrivere al meglio questa parte dovremo far attenzione ad alcuni aspetti. Quale è il nostro target? Cosa voglio comunicare? Qual è il nostro obiettivo, o i nostri obiettivi? Una volta fatte le giuste considerazioni diventa necessario scrivere con uno stile chiaro e coerente al nostro tone of voice, non essere banali ma fornire solamente informazioni utili e mirate alle esigenze del nostro cliente, sempre in maniera creativa.
  3. No, non è un altro elemento, ma ci tenevamo a fare un piccolo focus su questo punto. Con “parte creativa”, “creatività” o espressioni simili non vogliamo dire che dobbiamo inserire le nostre parole come se stessimo trascrivendo un quadro di Picasso. Scrivere in maniera creativa vuole dire riuscire a scrivere in modo non asettico, partendo da un’idea, seguendo uno stile e mostrando empatia con il target
  4. IL NOME DEL CLIENTE: riportare il nome del cliente all’interno dell’email è una strategia interessante, questo piccolo elemento è necessario per creare un legame più stretto con il nostro interlocutore, simulando un dialogo diretto. 
  5. IL GRASSETTO: l’utilizzo del grassetto può far emergere, evidenziandole, le parole più importanti del testo. Quelle parole che rimarranno più impresse al lettore, in quanto gli cattureranno più velocemente l’attenzione.  
  6. LA SUDDIVISIONE DEL TESTO: in ultimo punto, ma non per importanza, abbiamo la suddivisione del testo. Scandire il proprio messaggio con titolo, sottotitolo, corpo di testo e call to action è fondamentale per una buona fruizione del concetto. 

3. L’invio delle newsletter

Visto il possesso di una buona banca dati, e dopo aver creato un testo calzante con i nostri obiettivi, dobbiamo inoltrare la nostra newsletter in maniera corretta. 

Esistono per questo molteplici software di inoltro dei contenuti, strumenti utili a semplificarci queste operazioni. Creati appositamente per l’inoltro massivo di newsletter e scaricabili da internet, scegliendo quello più adatto alle proprie esigenze.

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4. L’analisi successiva

Dopo l’invio delle newsletter è importante svolgere un lavoro di analisi dei dati in possesso, per vedere quali risultati ha portato il nostro lavoro.

Alcuni parametri che possono essere valutati sono: il numero degli iscritti alla newsletter, il numero dei click ottenuti e il numero delle email aperte.

Per rendere veramente vincente l’invio periodico di newsletter dobbiamo aver ben chiari gli obiettivi da raggiungere. Normalmente si dividono in due aree di attenzione: la prima rivolta al risultato del proprio business e l’altra al messaggio o informazioni che si vogliono dare al cliente (raccogliere adesioni, divulgare notizie, scaricare contenuti etc.). 

Bene, adesso che sappiamo come gestire una newsletter in modo funzionale, analizziamo un case study!

Il boom dell’Estetista Cinica 🧠

Un esempio che rappresenta perfettamente la somma di tutti i suggerimenti sopra esposti, e che aggiunge anche innovazione e particolarità creativa, è quello dell’imprenditrice italiana Cristina Fogazzi (in arte “l’Estetista Cinica”). Vediamo grazie a lei come scrivere una newsletter efficace e accattivante!

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Cristina Fogazzi

I successi ottenuti la pongono come caso non solo di studio per quanto riguarda il rapporto fra newsletter e marketing, ma anche come metodo da seguire per ottenere un risultato positivo. 

Partendo da ciò che abbiamo affrontato precedentemente, uno dei punti fondamentali per ottenere un riscontro positivo è la corretta formulazione dell’oggetto

La vita della nostra email: letta o spam? 📨

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Esempio di oggetto dell'email - Estetista Cinica

L’esempio riportato sopra è un estratto di una delle newsletter di Cristina Fogazzi, come possiamo vedere abbiamo un unico concetto, un testo suddiviso in due parti e una grande creatività che attira l’attenzione.

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Esempio di una parte di testo dell'email - Estetista Cinica

Così come possiamo leggere dall’estratto di questa e-mail, i testi sono sempre molto coinvolgenti, riportano fatti accaduti personalmente ma che potrebbero riguardare tutti. Espressi sempre in modo simpatico e diretto. 

Il messaggio è professionale e soprattutto utile a chi legge ma reso comunque accattivante.

Dal servizio offerto ai prodotti scontati, tutto viene sempre calcolato in ogni minimo dettaglio: prodotti legati alla stagione in cui è mandata l’e-mail per risolvere problemi contingenti, frasi dirette a creare l’urgenza, la possibile scarsità del prodotto, promozioni a tempo etc. 

Infine, in una email così ben strutturata, non può mancare un footer completo di tutta quella serie di pulsanti utili a risolvere ogni dubbio o necessità di chi sta leggendo. E allora bene a sconti se si completa il proprio profilo, alla possibilità di condivisione sui social, a prodotti per i fan più accaniti, consigli utili e Faq in caso di dubbi. 

Ma il suo obiettivo? 🔍

Quello di fidelizzare il cliente facendolo sentire importante e al sicuro, parte di un gruppo e soprattutto fiero di appartenervi.

Perché non dimentichiamo mai che la pubblicità più importante rimane sempre il passaparola di chi è contento del prodotto/servizio.

Conclusioni: qual è allora il segreto per cogliere sempre nel segno? 🖊

Creare sempre contenuti di valore da inviare ai propri contatti per creare un legame costante ma di livello qualitativamente buono.

Cercare di anticipare i bisogni dei clienti, essere di aiuto su problematiche reali o potenziali, rassicurare sulla nostra presenza o sui nostri prodotti. 

La nostra newsletter, in ogni sua parte, deve essere confezionata sull’azienda e per il target come un abito sartoriale.

La Teoria della Coda Lunga: ovvero la formula del successo nell’era digitale

Come si costruisce un buon progetto nell’era digitale? Come si fa a rendere redditizio un piccolo business sfruttando i contenuti? Cosa vuol dire puntare sul lungo periodo?

Per rispondere a queste domande entra in gioco proprio lei: la Teoria della Coda Lunga.

Ai tempi dei nostri nonni c’era un vecchio proverbio che recitava più o meno così: “chi semina, raccoglie”. Se si semina bene un campo, allora si otterrà un buon raccolto. I frutti del proprio lavoro si vedono appunto sul lungo termine. Questa è la prima chiave di lettura della Teoria della Coda Lunga.

Anche nell’era digitale ci sono dei campi da seminare e dei frutti da raccogliere. La dinamica è certamente più complessa, ma il concetto alla base è sempre lo stesso: più si semina e più si ha la probabilità di raccogliere qualcosa di buono. Ovviamente, è necessario che i semi siano di qualità e che il terreno sia costantemente innaffiato con cura.

Partiamo quindi da questo vecchio proverbio per iniziare a comprendere il potenziale della celebre teoria di cui parleremo in questo articolo.

Cos'è la Teoria della Coda Lunga?

Chris Anderson

La teoria della coda lunga (The long tail) è stata elaborata da Chris Anderson nel 2004. La sua prima formulazione compare all’interno dell’omonimo articolo pubblicato sul magazine Wired, rivista in cui Anderson è stato caporedattore dal 2001 al 2012.

Si tratta della teoria che sta alla base del successo dei grandi player digitali, come Amazon, Netflix e Google. Il loro business model è infatti basato proprio sulla cosiddetta long tail (la coda lunga).

Nell’era digitale, una buona strategia di comunicazione, di marketing e di vendita non si rivolge più alla massa indistinta; si tratta invece di guardare alle nicchie di pubblico, la cui somma è uguale o addirittura maggiore rispetto al pubblico di massa.

In passato, gli spazi in cui conservare ed esporre prodotti e contenuti erano limitati: prendete come riferimento gli scaffali delle librerie e il palinsesto dei canali televisivi. Se lo spazio è finito, il modo migliore per catturare l’attenzione del destinatario e massimizzare le vendite è quello di offrire i contenuti più gettonati, quelli più popolari, le hit del momento, i grandi successi.

Con l’avvento di Internet e della sfera pubblica digitale il paradigma è completamente cambiato. Siamo passati in breve tempo da strumenti di massa per le masse a strumenti personalizzabili per le nicchie.

I vecchi mezzi di comunicazione di massa, generalisti per natura, hanno perso gradualmente la loro efficacia in favore di nuovi strumenti di distribuzione di contenuti e di vendita di prodotti e servizi.

In poche parole, se in passato il successo commerciale era dato esclusivamente dai cosiddetti best seller, con l’avvento del digital hanno iniziato a essere profittevoli anche i prodotti meno conosciuti e meno venduti.

Vediamo adesso nel dettaglio cosa significa tutto questo e le conseguenze che ha avuto sull’economia digitale e non solo.

Davide contro Golia, ovvero la rivincita dei contenuti di nicchia sullo strapotere della massa

La teoria della coda lunga - Il Grafico

Come si vede dal grafico in foto, il numero di vendite (unitarie) per un singolo prodotto di nicchia è nettamente inferiore al numero di vendite (unitarie) per un singolo prodotto di massa. Fin qui nessuna novità.

Ma ecco che entra in gioco la grande rivoluzione. Il cambio di paradigma sta appunto nel seguente assunto: se i prodotti di massa (le hit, i best seller) sono limitati per quantità, i prodotti di nicchia tendono all’infinito.

In poche parole, le hit del mercato sono poche, mentre la restante parte del mercato è composta da una quantità di prodotti potenzialmente infiniti. Di conseguenza, la somma delle vendite di tutti i prodotti di nicchia è uguale, o addirittura superiore, alla somma delle vendite dei prodotti di massa.

n. Prodotti di Massa (hit, best seller)
0%
n. Prodotti di Nicchia
0%

Infatti, gli aggregatori di contenuti e le librerie digitali ottengono un cospicuo guadagno vendendo contenuti di nicchia, evitando di concentrarsi esclusivamente sui successi commerciali. 

La strategia più comune è quella del cross-sell, messa in atto attraverso gli algoritmi di recommendation: se ti piace questo prodotto, ti consiglio di provare anche quest’altro che è molto simile al primo e che forse non conosci. 

Sarà capitato sicuramente a tutti di andare su un ecommerce per acquistare un prodotto e poi aggiungere al carrello un prodotto correlato. O ancora di andare su una piattaforma digitale per vedere un contenuto audiovisivo e poi fare binge watching guardando altri contenuti sulla base di quelli consigliati dalla piattaforma stessa. Youtube, Netflix, Spotify e tanti altri ancora utilizzano proprio questo sistema.

La teoria della coda lunga su Amazon
Scheda di prodotto su Amazon del libro La coda lunga
L'algoritmo di Amazon "spesso comprati insieme"
Ecco come funziona l'algoritmo di Amazon che ti consiglia un prodotto correlato: quando acquisti un prodotto su Amazon ti vengono consigliati altri prodotti simili da aggiungere al carrello. È la più comune strategia di cross-sell.

La teoria della coda lunga applicata alle vendite

Facciamo adesso un breve esempio per spiegare la Teoria della Coda Lunga.

5 prodotti best seller vendono in media 100 copie unitarie al prezzo di € 10 a copia. Il totale ricavato sarà pari a:

  • 5*100*10 = € 5.000

95 prodotti best seller vendono in media 10 copie unitarie al prezzo di € 15 a copia (un prodotto di nicchia, per ragioni di economia di scala, avrà quasi certamente un prezzo maggiore rispetto a un best seller). Il totale ricavato sarà quindi pari a:

  • 95*10*15 = € 14.250

Anche volendo ipotizzare un identico prezzo unitario, il ricavo generato dalla somma dei prodotti di nicchia sarebbe comunque superiore a quello generato dalla somma dei best seller:

  • 95*10*10 = € 9.500

Ovviamente qui siamo pur sempre nella dimensione teorica e i dati utilizzati per l’esempio non hanno alcuna origine empirica. Si potrebbe obiettare che 10 unità per prodotto di nicchia sono eccessive. Anche dimezzando la quantità di unità vendute il concetto rimane comunque valido e saldo. Ed è bene ricordare che grazie alle strategie di cross-sell i prodotti di nicchia aumentano esponenzialmente il numero di unità vendute, dato che che spesso sono abbinati alla vendita dei prodotti best-seller.

Ricavo dai Prodotti di Massa
0 .000 €
Ricavo dai Prodotti di Nicchia (prezzo con economia di scala)
0.500 €
Ricavo dai Prodotti di Nicchia (stesso prezzo unitario)
0.250 €

Le ragioni di un cambio di paradigma

Sono essenzialmente quattro le novità che hanno permesso questi grandi cambiamenti: 

  1. la diffusione della banda larga;
  2. lo spazio potenzialmente illimitato sugli “scaffali virtuali”;
  3. la riduzione dei costi di stoccaggio (praticamente tendenti a zero nel caso di prodotti e servizi digitali);
  4. la possibilità di aggregare in un’unica piattaforma le disponibilità di differenti magazzini sparsi per il globo.

Questo ha inoltre permesso ai player digitali di rendere accessibili contenuti dimenticati e infondere loro nuova linfa vitale grazie al meccanismo delle recommendation citato poco sopra: se acquisti un certo prodotto, l’algoritmo ti consiglia un prodotto simile. Magari un prodotto limitato. Magari un vecchio libro che in passato non aveva riscosso successo e che grazie alle recommendation può tornare ad avere nuova linfa vitale e diventare a sua volta un best seller a posteriori.

Ed è esattamente quello che è accaduto con il libro Touching the Void (1988) di Joe Simpson. Nell’anno di uscita il testo riscosse un moderato successo, ma non al punto da renderlo un best seller. Circa dieci anni più tardi, con l’uscita del libro Into Thin Air (1997) di Jon Krakauer, l’algoritmo di Amazon rese popolare anche il libro di Joe Simpson, proprio grazie al meccanismo delle recommendation. Questo esempio è riportato anche nell’articolo originale di Chris Anderson sulla long tail.

Quanto detto fino a questo momento si unisce alla logica anything, anytime e anywhere: ovvero qualsiasi contenuto o prodotto, in qualsiasi momento e in ogni luogo.

Chris Anderson riassume la sua teoria con le seguenti parole, da tenere bene a mente per capire con che logica si affrontano le sfide nell’era digitale:

«Dimentica di spremere milioni da poche hit in cima alle classifiche. Il futuro dell’intrattenimento è nei milioni di mercati di nicchia nella parte bassa della classifica delle hit»

Chris Anderson: Identifying “The Long Tail”

La Long Tail applicata alla SEO: come essere primi su Google (o forse no)

A distanza di molti anni, questa teoria continua a essere il cardine di ogni strategia digitale (e non solo). Gli sforzi di qualsiasi progetto si vedono sul lungo termine, grazie all’accumulazione di contenuti che piano piano intercettano sempre più utenti. Contenuti che continuano a mantenere una propria vita grazie all’indicizzazione e al posizionamento sui motori di ricerca, a patto che vengano rispettate le buone pratiche di Search Engine Optimization (SEO)

Lavorare bene sui propri contenuti significa contribuire ad allungare la propria coda lunga. E quanto lunga deve essere questa coda nessuno può dirlo: dipende dagli obiettivi che si intendono raggiungere e quanto lontano si vuole andare.

In una strategia di posizionamento sui motori di ricerca, la teoria della coda lunga è senza alcun dubbio un alleato importante. Ogni brand e impresa vorrebbe posizionarsi sulle keyword principali del proprio settore e/o sfruttare la paid search sulle parole chiave più cercate. Questo però comporta due problemi:

  1. Alta concorrenza e quindi alta competizione, ovvero si corre il rischio di essere un pesce in mezzo al mare. E nel caso di competitor particolarmente grandi, un pesce in mezzo agli squali;
  2. Maggior costo delle keyword nella paid search: maggiori sono gli inserzionisti che partecipano alle aste e maggiore è il costo delle inserzioni (per la legge della domanda e dell’offerta).

Per ovviare a questi problemi, una buona strategia SEO tende a prediligere le cosiddette long tail keyword, o più semplicemente, le parole chiave a coda lunga.

  • Esempio di parola chiave: ristorante di pesce; ristorante di carne;
  • Esempio di parola chiave a coda lunga: ristorante di pesce in riva al mare; ristorante con carne da allevamenti italiani;

La keyword “ristorante di carne” avrà senza alcun dubbio un maggior volume di ricerche mensili e quindi sarà visualizzata da più persone. Ma avrà anche certamente un maggior numero di competitor e un maggior costo nel caso della pubblicità a pagamento sui motori di ricerca.

Utilizzare le long-tail keyword, se individuate nel modo giusto, permette di abbattere i costi del SEM (Search Engine Marketing) e contribuire alla buona organicità della SEO (Search Engine Optimization).

Per la teoria della coda lunga, la somma delle long-tail keyword potrebbe produrre un volume di ricerca maggiore rispetto a una singola parola chiave più gettonata. Ovviamente alla teoria deve seguire la pratica: ogni settore ha le sue peculiarità e necessita di una strategia cucita su misura.

Conclusioni

I campi di applicazione della Teoria della Coda Lunga e le relative modalità sono senza alcun dubbio molteplici e diverse tra loro. Dalla selezione delle parole chiave alla selezione dei prodotti da esporre nel proprio store virtuale; dalla pubblicità a pagamento passando per la produzione di contenuti per il proprio piano di content marketing.

I concetti alla base, però, sono sempre gli stessi:

  1. Pensare tanto alla nicchia quanto alla massa;
  2. Concentrarsi sul lungo termine, e non esclusivamente sul breve termine;
  3. Avere pazienza, perché ogni strategia che si rispetti richiede calma e sangue freddo.

E giunti alla fine di questo articolo è necessario dire le cose come stanno: ebbene sì, questo contenuto fa proprio parte della personalissima coda lunga di Midable.

Fonti consultate e approfondimenti

Questo articolo è una rielaborazione e un ampliamento di un contenuto pubblicato sulla pagina Instagram di Midable in data 8 agosto 2020.

Ecco perché non riusciamo a staccarci dallo schermo: captology e tecniche persuasive

Il computer come alleato o come manipolatore delle menti? 

La relazione fra uomo e computer, soprattutto se riferita ai nuovi social media, sta diventando il tormentone degli ultimi anni. Fra minimizzatori e allarmisti la captologia sta portando a un’analisi più dettagliata delle interrelazioni fra privacy, utilizzo dei dati e grandi colossi mondiali. È forse il caso di temere per il nostro futuro?

The Social Dilemma e il risveglio delle coscienze

Mentre il dibattito fra sociologi e psicologi dura da tempo, il problema della possibile manipolazione delle nostre menti attraverso l’uso del pc e dei social media ha assunto maggior spessore dopo l’uscita del film documentario The Social Dilemma.

Questa pellicola, presentata il 26 Gennaio 2020 al Sundance Film Festival, è stata distribuita nel Settembre dello stesso anno su Netflix, diventando in breve tempo uno dei film più visti dal pubblico della piattaforma.

Il dibattito si è infuocato e ognuno di noi ha avuto la possibilità di conoscere il problema o quanto meno di porsi alcune domande in modo diretto.

Il documentario The Social Dilemma è un atto di accusa fatto dall’interno, dagli stessi “costruttori” dei social network verso le loro creazioni. Il tutto prende vita da una serie di domande, risposte, dialoghi, considerazioni e rivelazioni che il regista Jeff Orlowski assembla e propone al grande pubblico.

Le voci che danno vita al film sono importanti e di grande spessore (come Tristan Harris, “protagonista” ed ex consulente etico di Google).

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Un mondo "drogato" dai social media

Secondo il documentario, sono sempre di più le generazioni rassegnate a vivere in una forma di isolamento dalla realtà. Menti manipolate che non possono più decidere niente, perché ormai è la macchina che decide per loro. 

Ma è veramente un sistema sfuggito al controllo, oppure come sostengono alcuni il documentario propone solo temi scontati trasformando gli utenti in zombie virtuali senza più capacità intellettiva?

I social network fanno male alla salute delle persone e creano dipendenza al punto da alienare l’individuo e orientare le sue scelte attraverso gli algoritmi?

Un’estinzione imminente per l’umanità o un allarmismo senza fondamento, considerando che tutto può essere pericoloso o utile, ma dipende soltanto dall’uso che ne viene fatto.

Sicuramente la relazione fra i dati forniti dagli utenti e le multinazionali che li detengono pone un problema etico e sociale: la necessità di una regolamentazione.

Una regolamentazione sull’utilizzo di quei dati sta diventando una richiesta sempre più pressante da parte delle associazioni dei consumatori, dei sociologi e psicologi del mondo.

Ma come ci poniamo di fronte a questi strumenti?

Non bene. Da studi effettuati negli Stati Uniti emerge che mediamente un adulto trascorra due ore al giorno sui social e un adolescente fino a nove.

Anche non volendo dare credito alla posizione catastrofica del lungometraggio di Orlowski, il tempo dedicato allo scrolling sui social è veramente tanto.

Che questo sia voluto dagli stessi informatici che li hanno progettati per svegliare in noi un bisogno compulsivo, oppure sia solo il risultato delle nostre solitudini, una domanda dobbiamo porcela:

ci rendiamo conto di quante ore di una nostra giornata tipo regaliamo al mondo virtuale sottraendole a quello reale?

Certo, come sostengono altri studi, il problema è complesso e coinvolge non soltanto il tempo trascorso, ma anche i contenuti visualizzati.

Per tutte le cose dipende molto dall’uso che ne viene fatto e questo vale anche per l’argomento che stiamo trattando. Durante il periodo della pandemia Covid-19 sicuramente i social possono essere diventati punti di contatto per emergere da una solitudine imposta dalle restrizioni sanitarie.

La Captologia

A cercare di dare una risposta alle tante domande che sicuramente ci stiamo ponendo arriva in soccorso la scienza nella nuova veste della Captologia.

L’Enciclopedia Treccani definisce la captologia nel seguente modo:

«Branca delle scienze sociologiche che studia l’impatto delle tecnologie interattive su comportamenti, abitudini, convinzioni di chi naviga in rete»

Questa scienza nasce nel 1996 dalla coniazione del termine “Captology” fatta dal Dott. Fogg (direttore del Laboratorio di Tecnologia Persuasiva presso la Stanford University).

Il termine “Captology” è stato coniato dallo stesso Fogg dall’acronimo CAPT (Computers As Persuasive Techonogies).

Dr. Brian Jeffrey Fogg
Dott. Brian Jeffrey Fogg

Prima di affrontare il tema dell’utilizzo dei pc come tecnologie persuasive dobbiamo dare la definizione di cosa si intende con il termine “persuasione”.

La persuasione possiamo vederla come il tentativo di far fare a un soggetto ciò che non farebbe di sua spontanea iniziativa.

Se vale la regola che più una persona ci conosce e più è in grado di persuaderci, certamente i pc – strumenti nati per supportarci nelle attività quotidiane di studio, lavoro e intrattenimento – possono diventare dei persuasori occulti estremamente potenti. Il computer diventa quindi il miglior mezzo per manipolare le persone e farsele amiche.

Secondo gli studiosi di captologia, il nostro più grande problema è quello di ritenere i pc neutrali, o peggio ancora, quello di rapportarsi a loro come se fossero delle persone.

Non avendo ancora un carattere intenzionale, le intenzioni manipolatorie dei computer sono quelle dei programmatori e non certamente quelle dei computer. Questi, per adesso, analizzano e raccolgono ciò che un algoritmo gli comanda, a seconda delle intenzioni e dei bias di chi ne ha sviluppato il software e progettato l’architettura informativa.

Ormai il valore di un’azienda non dipende più soltanto dal capitale o da ciò che sa fare, ma dipende soprattutto dal patrimonio dei dati che possiede. Più noi forniamo dati (con iscrizioni, cookies, ricerche etc.) più veniamo targhettizzati.

La profilazione del target

La pratica della profilazione è diventata uno degli elementi fondamentali alla base di ogni scelta di marketing aziendale.

Pensiamo soltanto a ciò che ci viene proposto da Google oppure da Facebook. Quando facciamo una ricerca, immediatamente compaiono sui nostri social pubblicità e articoli riferiti a ciò che abbiamo cercato.

E se da un lato ci aiuta a farci vedere ciò che ci interessa veramente, dall’altro limita molto le nostre conoscenze o idee su determinati argomenti, non mostrando una voce diversa dalla nostra.

Altro esempio che sicuramente è successo a tutti noi è quello di incappare nelle tecnologie di geofencing, le quali ci portano ad avere informazioni sull’acquisto di negozi vicini a noi o segnalazioni di luoghi dove siamo passati (Google lo fa continuamente attraverso Google Maps).

Tecnologie Persuasive

Facciamo adesso qualche esempio di tecnica persuasiva usata dai social e cerchiamo poi di scovarle nella nostra quotidianità per vedere se inconsapevolmente ci siamo cascati.

Possiamo difenderci da qualcosa solo se la conosciamo.

Facebook ha una tecnologia persuasiva potentissima e studiata per inchiodarci il più possibile allo schermo. Pensiamo ad esempio al tagging: un messaggio comunica che sei stato taggato, ma non fornisce altra informazione, costringendoti quindi ad aprire l’app per scoprire il contenuto del tag e magari rimanere incollato sul social una volta al suo interno.

Questa tecnica fa aumentare il tempo di permanenza sui social. E più tempo si trascorre sul social più pubblicità vediamo e più dati forniamo all’algoritmo.

Alla base dell’intelligenza artificiale che regola questi strumenti c’è semplicemente un algoritmo. Più vieni inchiodato a visualizzare determinati contenuti e più vengono proposti contenuti simili, con un bombardamento continuo di spot, notifiche, email e così via.

Smartphone e Slot machine

slotmachine-smartphone

Sempre in riferimento ai meccanismi che vanno ad agire sul nostro intento, lo smartphone è stato paragonato a una slot machine: sempre a nostra disposizione, è ormai diventato una presenza imprescindibile del nostro vivere quotidiano.

Forse non ci rendiamo conto che il display tecnologico e le app accattivanti molto spesso ci portano a consultare spasmodicamente il telefono senza un bisogno effettivo.

Lo strumento del “rullo virtuale”, tipico delle slot machine, viene infatti usato anche dai più importanti social. Se ci pensiamo, Facebook è la più grande slot machine del mondo:

i like sono la moneta sociale che ci lega alla piattaforma, dandoci quel senso di gratificazione ogni volta che vediamo che qualcuno ha lasciato un riconoscimento su una nostra pubblicazione.

Ogni notifica ricevuta è assimilabile a un giro del rullo, il quale si traduce in nuovi scrolling e in maggior tempo passato sul social.

Le stesse richieste di contatto sono determinate da un algoritmo che propone nuove persone sulla base delle conoscenze acquisite, delle affinità dei profili e dei comportamenti online. In questo modo si viene a creare un mondo chiuso fra soggetti che la pensano in modo uguale o vivono in modo simile.

Un problema etico questo per una società come la nostra, fondata sull’ideale della libera scelta individuale e sulla libertà più in generale.

Conclusioni

Sicuramente quello che oggi manca maggiormente nelle persone che utilizzano i social è la consapevolezza di ciò che avviene dietro a ogni loro click.

Una regolamentazione più ferrea e una informazione più accurata potrebbero arginare il rischio che uno strumento così innovativo e importante possa trasformarsi in un boomerang pericolosissimo.

La conoscenza è sempre alla base di ogni libera scelta. E se la scelta è libera, lo spazio per la manipolazione diventa esiguo.

Educare all’uso dei computer e delle tecnologie digitali dovrebbe diventare materia di studio al pari della letteratura e della matematica. Il progresso non può prescindere dalle nuove tecnologie, ma l’uomo ha bisogno di strumenti e di tempo per capire come riprendere in mano il timone della propria esistenza.