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Categoria: Comunicazione

La digitalizzazione nel settore medico-sanitario. Intervista al Professor Antonio Vittorino Gaddi

Quali sfide attendono il settore medico sanitario per una buona digitalizzazione? Qual è il futuro della telemedicina? Quali sono gli strumenti che il digitale può offrire per il miglioramento del rapporto medico-paziente?

In questa intervista al Professor Antonio Vittorino Gaddi, Presidente della Società Italiana Telemedicina, scopriamo a cosa serve la telemedicina e quali sono le opportunità di questa tipologia di prestazione medico sanitaria.

Antonio Vittorino Gaddi - Presidente Società Italiana Telemedicina

Quando e come è nata la Società Italiana Telemedicina (SIT)?

Prof. Gaddi:
La SIT nasce dalla volontà ferrea e dall’intuito di un collega che non è più con noi,
Giancarmine Russo, medico di medicina generale a Latina. Aveva capito l’importanza della telemedicina per la gente, per il paziente, per l’anziano, per il bambino, per la medicina generale. 

Parliamo del 1978-1979, epoca nella quale non esistevano ancora i personal computer. Quando arrivarono i primi computer li connettevamo tra loro per cercare di scambiare dati sui pazienti. 

Per cui avevamo un’intensa attività di studio e di ricerca su queste nuove tecnologie. Tuttavia, non avevamo pensato all’importanza di portare questo tipo di tecnologia nella vita di tutti i giorni del paziente e del medico. 

È stata l’intuizione di Giancarmine che ha creato la società. Poi la società, come tutte le società scientifiche che in Italia non sempre hanno un cammino agevole, ha avuto alterne vicende: ha proposto dei congressi, poi si è fermata, ha avuto molte adesioni e molte resistenze. 

È giusto che i giovani sappiano che da oggi in poi si parlerà di telemedicina. In passato veniva considerata una cosa dal carattere amministrativo che semmai doveva avere la finalità di far risparmiare qualche soldo a qualche pubblica istituzione. Pertanto, per vent’anni è stata utilizzata molto poco

Un po’ per la pandemia [da Covid19, n.d.r.], un po’ grazie alla volontà di alcuni soci, che nel 2020 abbiamo deciso di far ripartire con grande forza la SIT. Dai 50-60 soci dell’epoca adesso ne ha 600.

È articolata in sezioni regionali. Oggigiorno, grazie all’apporto di giovani e meno giovani, sta andando davvero bene, sia attraverso focus group disciplinari, sia attraverso una distribuzione sul territorio nazionale.

Quali sono le principali attività svolte dalla SIT e quali sono i vostri obiettivi?

Prof. Gaddi:
Il nostro obiettivo principale resta quello di studiare da un lato e applicare dall’altro tutto ciò che le
Information and Communication Technologies (ICTs) possono dare all’ambito medico, però seguendo la definizione di e-Health data dai ministri dell’Unione Europea nel lontano maggio del 2003: è una buona e-Health qualunque applicazione delle Information and Communication Technologies che, a prescindere dal tipo di tecnologia, sia in grado di incontrare e soddisfare i bisogni del malato e del personale sanitario, ma anche dei cittadini e dei governi. 

Ci sono poi altre definizioni più complesse. Per raggiungere questa finalità bisogna articolarsi in varie tipologie di attività specifiche, alcune sono disciplinari (cioè correlate a specifici campi di applicazione).

Tenete conto che sono molto presenti tutte le discipline mediche,  come ad esempio la telecardiologia, la telegeriatria, l’assistenza al home-care, l’assistenza territoriale con/senza le farmacie, gli infermieri di comunità, tutte le nuove figure che si affacciano alla scena sanitaria, e tante altre.

Qual è la percezione che le persone hanno sulla SIT e sulla Telemedicina? Avete fatto degli studi o dei sondaggi?

Prof. Gaddi:
Per quanto riguarda la percezione verso la SIT possiamo dire che questa è cresciuta moltissimo.

 Al suo interno ci sono esperti di mass media e anche giornalisti. Quindi grazie alle persone che ci sono e a quelle che verranno, la SIT si farà conoscere sempre di più, sia come società sia come gruppi funzionali nelle singole regioni.

Inoltre, ultimamente abbiamo deciso di includere come soci non solo i medici, che sono l’ossatura portante, ma anche gli ingegneri, gli informatici, i matematici, i giuristi, gli esperti di discipline umanistiche, rappresentanti dei cittadini e del volontariato. Stiamo crescendo, sempre più gente ci conosce.

Abbiamo delle ricadute importanti sui social, ma restiamo comunque una società scientifica che parla principalmente ai professionisti il cui scopo è fare promozione della formazione della ricerca, e non tanto disseminazione periferica alla gente.

Invece, per quanto riguarda la percezione che hanno le persone della telemedicina, io direi che è molto confusa in questo momento. Tutti ne hanno sentito parlare, in epoca di Covid ancora di più. Dico confusa perché la nostra popolazione, come anche in altre parti d’Europa, si nutre di quello che viene detto dai giornali.

Gli articoli sulla telemedicina sono stati relativamente pochi e non sempre illuminanti. Ad esempio, in Italia nessuno conosce la definizione di e-Health. I giornali non hanno portato un contributo informativo e Internet fornisce informazioni parcellizzate, diverse l’una dall’altra, poco coerenti, se non addirittura vere fake news.

Probabilmente se interroghiamo venti persone diverse per età, cultura e nazione ci danno venti definizioni di cosa può essere la telemedicina. 

Però se questo fenomeno mi scoraggia dal punto di vista culturale, da un punto di vista operativo io ritengo che non sia un grande problema. Se saremo bravi porteremo la telemedicina a regime, come strumento usuale e abituale degli atti sanitari senza colpo ferire e senza neanche nominarla. Certo è che adesso abbiamo bisogno di dare dei nomenclatori.

Se guardate, infatti, la conferenza stato-regioni e l’Istituto Superiore di Sanità hanno dato una definizione di tutto. Tuttavia queste cose non servono perché il vero processo fisiologico è fare in modo che i medici e il personale sanitario usino queste tecnologie e le applichino alla salute. Il cittadino non deve neanche accorgersi che sono state applicate.

Quando i cardiologi hanno inventato il fonendoscopio, noi non abbiamo spiegato a tutta la gente che cosa era la fonendoscopiologia, l’abbiamo usato e basta, poi le persone si sono abituate a vedere il medico con il fonendoscopio in mano. Questo aspetto è lo stesso che va attuato in tutto ciò che riguarda la salute umana.

La salute del paziente al centro di tutto

Quando si tocca la saluta umana il centro deve essere il paziente, la sua salute e il suo benessere. Se mettiamo l’attenzione sullo strumento tecnologico stiamo facendo un errore, perché stiamo spostando l’attenzione sull’oggetto e non su quello che deve essere il risultato.

Quindi se saremo bravi, utilizzeremo le tecnologie, l’informazione e la comunicazione per potenziare la medicina senza bisogno di dover creare un’ulteriore disciplina.

La telemedicina non è una disciplina in più, è medicina fatta bene con strumenti tecnologici che sempre più dovranno essere usati da tutti. Bisogna andare più nella direzione della visione della percezione della persona del suo benessere, del suo stato di salute e di quello di chi gli è vicino.

È chiaro che se io fossi il titolare di un’impresa che vende un saturimetro di un certo tipo avrei obbligatoriamente bisogno di puntare l’attenzione anche sull’oggetto e quindi di spostare tutto il concetto di malattia polmonare sull’idea che tu devi mettere questa cosa sul dito, guardare lo schermo, guardare i numeri, riferirli ad un medico, eccetera.

Gli anziani vengono molto facilmente disorientati da queste cose, direi depistati. L’anziano non deve essere teso a mettere il saturimetro e a leggere il numerino, deve essere soddisfatto perché in quel momento magari ha un bel libro ed è seduto sulla sua poltrona davanti al caminetto. Non so se mi sono spiegato chiaramente.

Previsioni per il futuro circa gli scopi da raggiungere e le tempistiche?

Prof. Gaddi:
Il primo
Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), presentato un anno fa, era assolutamente inefficiente e non avrebbe potuto far nulla di buono. Con il cambiamento dei governi e gli eventi politici degli ultimi mesi ci sono state molte modifiche migliorative.

Quello che di buono verrà fatto con i fondi della parte di digitalizzazione del PNRR, che riguarda molti settori, verrà messo a sistema nel Sistema Sanitario Nazionale nel 2025. Se in questi due anni di applicazione di cose buone che già abbiamo, e non tanto di ricerca di cose nuove, funzioneranno a dovere, io penso che fra tre anni ci possa essere un salto in avanti in alcuni settori della salute. Ma non in tutti.

La gestione della salute individuale è collettiva, e tutte e due sono compiti dello Stato. Se questa visione della salute dovesse essere migliorata per tutte le fasce di età e per tutte le malattie ci troveremo di fronte a un problema di vera e propria complessità, difficilmente risolvibile a prescindere dal fatto di avere 17 miliardi di euro.

Non è più una questione di cifra o di fondi, e forse neanche di buona volontà, è una questione di cambiamento complesso di un’intera organizzazione sanitaria che cambia in uno stato, e mentre cambia in quello stato deve anche cambiare negli altri stati vicini. Deve peraltro essere attuata rispettando tutti i sacri principi di equità della distribuzione delle risorse, di accesso alle cure, eccetera.

Diventa quindi un’operazione epocale. Qui si crea un piccolo problema: le tecnologie si evolvono con una velocità altissima, alcune addirittura evolvono e muoiono, venendo soppiantate da altre. Questi cambiamenti di carattere strategico-organizzativo, tuttavia, richiedono che la gente e le organizzazioni si adeguino, che cambi la nostra mentalità.

Sono processi lenti, lungo i quali spesso si contano i morti degli insuccessi, perché in tutti i progressi della medicina c’è sempre stato quello che ha funzionato e quello che non ha funzionato. Peraltro, se noi oggi sapessimo curare tutti nel modo più perfetto del mondo forse allora non servirebbero nemmeno più gli ospedali. Saremmo arrivati vicini al buon Dio nel gestire il destino degli uomini. Non è così, è un percorso lento.

Quindi sono molto ottimista dei risultati misurabili in brevi termini. Ma sono anche realista sul fatto che per mettere a sistema e applicare veramente bene tutte le tecnologie e tutte le nuove potenzialità all’intera popolazione per tutte le malattie ci vuole un processo necessariamente lento, di cambiamento, che avverrà nei decenni.

Il gap 90/10 della salute

Io auspico che questo avvenga in modo parallelo in tutti i paesi del mondo perché altrimenti il gap 90/10 di cui ci parla il Global Forum della Health Research dell’Organizzazione Mondiale di Sanità aumenterà ancora di più e ci saranno ancora più disparità.

Il gap si chiama 90/10 perché si basa sul principio che il 90% delle risorse nel campo della salute viene impiegato per quel 10% della popolazione mondiale e, viceversa, il 10% rimanente viene utilizzato per curare il restante 90% della popolazione mondiale.

Credo che la tecnologia ha in sé il potenziale per aiutare tutti di più, ma ha in sé anche il rischio di aumentare i divari. Allora in questo processo, quello lungo, non quello del PNRR, bisognerà stare veramente attenti. Mi riferisco alle future generazioni per cercare di portare avanti in armonia e equilibrio questo sviluppo.

Conclusioni

Christian Pergola:
Al termine dell’intervista è doveroso sottolineare l’importanza del Digital e della digitalizzazione in quanto mezzi, ovvero strumenti che devono servire a semplificare la vita. Devono essere dei substrati praticamente trasparenti, come se fossero delle «protesi del corpo umano», per citare Marshall McLuhan. 

Non deve esserci una soluzione di continuità tra strumento e soluzione, ma lo strumento deve essere praticamente “invisibile” per le persone e agevolare la loro vita in risposta ai problemi da risolvere. 

Questa cosa è molto importante, perché spesso c’è una sorta di feticismo nei confronti degli strumenti che ci fa deviare da quello che poi è l’obiettivo effettivo, quindi risolvere un problema.

In conclusione, un ringraziamento al professore. È stata un’intervista davvero interessante.

Crediti

Anna Vrtev ha intervistato per Midable Magazine il professor Antonio Vittorino Gaddi, Presidente della SIT (Società Italiana Telemedicina).

Introduzione di Silvia Infriccioli (SIT). Interventi di Christian Pergola (Midable).

L’intervista è stata registrata in data 8 novembre 2021.

Intervista completa in formato video

TikTok, un algoritmo che funziona in politica

La piattaforma cinese sempre più in evoluzione, si sta da poco facendo spazio nel chiacchieratissimo settore dell’attivismo politico.

Nel corso della storia e del tempo, il modo di comunicare è sicuramente cambiato. Allo stesso modo la politica si è evoluta, in cerca di soluzioni innovative per raggiungere un pubblico sempre più ampio.
Vediamo come, al giorno d’oggi, questo argomento è diventato quasi un trend da seguire sul social più ambito del momento.

Il social della libertà di espressione

TikTok ospita una grande e diversificata comunità di attivisti. Sulla piattaforma possiamo incontrare video che parlano di dichiarazioni politiche, teorie della cospirazione, contenuti razzisti e sessisti o addirittura fake news dovute alla disinformazione.

TikTok si è sempre distinto come portavoce di un target omogeneo e internazionale. In particolare dà modo ai giovani di connettersi ad un pubblico vicino usando ricorrenze simboliche collettive, che possono essere fisiche, visive o virtuali (come danze e balletti virali o hashtag in tendenza e citazioni del momento).

La nuova moda di comunicare in politica

TikTok è un social network relativamente nuovo, fresco e giovanile, che attrae fasce di ragazzi di tenera e media età. Nonostante questo, come tutti i canali digitali, all’interno dell’applicazione sono recentemente approdati anche gli adulti, e con loro la politica in vecchio stile.

Ma TikTok è davvero pronto ad affrontare questa diplomatica invasione social dovuta dall’avvento dei boomer?

In realtà TikTok stabilisce l’impossibilità di “fare politica” sulla piattaforma, e la stessa regola viene riproposta per quanto riguarda gli annunci a pagamento:

Niente annunci a favore o contro un politico o un partito. No ad annunci elettorali. Niente annunci che criticano o esaltano provvedimenti di un governo.”

Queste sono le linee guida più rilevanti per il corretto utilizzo della piattaforma, ma è risaputo ormai che la nuova generazione sia interessata più di ogni altra cosa ai diritti, all’ambiente e alla politica.

Il conflitto politico su TikTok è ancora relativamente limitato e, spesse volte, è controproducente. Le discussioni e i confronti su questa piattaforma sfociano molto facilmente e vengono filtrati attraverso le caratteristiche, le singole identità e le esperienze personali dei giovani utenti, considerando il dialogo politico sotto un aspetto molto privato e personale.

Se lo scorso ottobre, dunque, TikTok ha vietato la pubblicità a pagamento che tratta di politica, è proprio su questo social che i movimenti politici più riconosciuti stanno prendendo piede, producendo una quantità intingente di contenuti, commenti ed interazioni. 

Ad esempio, in Italia #greenpass ha raggiunto 53,6 milioni di visualizzazioni e #ddlzan 63,1 milioni, mentre l’hashtag #blacklivesmatter per 27,8 miliardi di visualizzazioni e #georgefloyd ne ha raccolti 5,1 miliardi.

Il razzismo e il caso #BlackLivesMatter

Gli elementi condivisi dai giovani riguardanti la politica, che si concretizzano in canzoni o hashtag, sono aspetti fondamentali nel contesto dell’espressione legata a Black Lives Matter su TikTok. Esiste una grande diversificazione in termini di stile ed espressione, dall’ironia alla rabbia, dalle proteste, dai meme, dai gif alle interviste.

Dal brutale episodio dell’afroamericano George Floyd, risalente al 25 maggio 2020, si è da subito sviluppato un senso di solidarietà e consapevolezza generazionale collegato al concetto di espressione politica libera e condivisa: sui social e nei vari filmati di proteste, si notano diversi commenti come “Adoro la nostra generazione con tutto il cuore” e “La Gen Z sta cambiando il mondo”, il che è davvero interessante perché le “generazioni”, in genere, non si riferiscono a sé stesse come gruppi di appartenenza.

Colpisce soprattutto il forte impatto che semplici e brevi parole come gli hashtag abbiano un forte impatto nelle conversazioni che si generano nel mondo digitale e, in questo caso, come questi vengano utilizzati anche da persone al di fuori degli Stati Uniti per sostenere il movimento BLM. Ad esempio, in Israele le proteste in solidarietà del Black Lives Matter si sono unite alla protesta degli israeliani di origine etiope che subiscono discriminazione razziale da parte della polizia del territorio.

Questo indica come TikTok consenta ai giovani d’oggi di dare voce alle loro battaglie e paure, collegando un messaggio personale ad un momento politico di ampia portata.

TikTok porta visibilità alla guerra

L’invasione russa dell’Ucraina non è la prima guerra dei social media, ma è la prima a svolgersi su TikTok. L’attuale conflitto, alimentato dall’effetto virale della piattaforma, ha creato in modo importante un flusso infinito di filmati che raccontano la guerra come non era mai capitato prima d’ora.

Questi report e video sono letteralmente diventati una salvezza per gli investigatori che attualmente cercano di tracciare i movimenti dell’esercito russo. E in questo periodo storico c’è molto seguito per i video sulla guerra: tra il 20 e il 28 febbraio, le visualizzazioni dei video con l’hashtag #ukraine sono passate da 6,4 a 17,1 miliardi.

Ed è così che la terribile guerra scoppiata in Ucraina è stata nominata come la prima “social media war”, che vede una forte strategia comunicativa del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che non ha mai abbandonato il suo paese, bensì è da subito rimasto per lottare vicino al suo popolo, come un vero e proprio eroe. 

Come ormai sappiamo, il conflitto si sta combattendo anche sul web, perciò sta diventando sempre più difficile distinguere le vere notizie da quelle false.
Resta importante sottolineare che TikTok lotta per impedire il diffondersi di informazioni false e teorie del complotto.
L’applicazione ha recentemente aggiornato una sezione che avverte gli utenti di “verificare i fatti utilizzando fonti affidabili” quando ricercano determinate categorie di argomenti.

Conclusioni

TikTok è sicuramente il social rappresentativo del momento, sempre più noto soprattutto come palcoscenico di propaganda politica.
È necessario capire che una piattaforma che ottiene una forte risonanza e un grande riscontro, funziona se si hanno affinità con il mezzo in questione, se si sanno veicolare i messaggi in modo giusto e intelligente, non se si vuole provare ad essere giovanili a tutti i costi, senza alcun effetto positivo futuro.

Perché non è sempre bene fidarsi…in Rete

La teoria del complotto

Un complotto (o cospirazione) è un’azione condotta da più persone mediante un accordo segreto, che mira ad alterare o sconvolgere una situazione sociale consolidata.

La parola “cospirazione” deriva dal latino cum spirare (respirare con) e indica un accordo profondo, intellettuale e sentimentale, con l’intenzione di raggiungere l’obiettivo prefissato.

Il complotto viene solitamente architettato da un gruppo, una minoranza ristretta: si tratta di attori anonimi e avvolti nel mistero, per cui non si conosce chi realmente faccia parte dell’organizzazione.

Le informazioni sugli eventi più rilevanti vengono trasmesse velocemente grazie ai mezzi di comunicazione; la teoria del complotto seleziona alcune notizie e fotografie dal flusso informativo per insinuare il dubbio sulla veridicità delle informazioni.

Il complottismo

Il complottismo non presta attenzione alla verità e all’autenticità, ma alla verosimiglianza per poter diffondere il sospetto su ciò che appare.

La logica del complotto si basa sui pregiudizi. Quando si pensa a qualcosa, viene avviato il processo relativo al modo di intenderla e di darle una forma.

Se il modo di intendere risulta falsato e distorto si parla di pregiudizio, se invece è favorito e facilitato, si parla di presupposto. Il presupposto è quindi inevitabile perché compone e struttura un pensiero, mentre il pregiudizio falsa e distorce e fa parte della logica del complotto perché è manipolatorio.

Il concetto di “menzogna” è connesso a quello di “complotto” e si traduce in diverse forme difficili da individuare e da smascherare. La menzogna può cambiare il significato degli eventi e presentarli come non veri: è un’arma politica perché può provocare delle reazioni a catena con l’obiettivo di plasmare e manipolare la realtà.

Cosa sono le fake news?

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Con il termine fake news si intendono tutte quelle notizie, che pur non avendo nessun fondamento verificato, circolano in rete, sui social network o sui media tradizionali. 

Si tratta di menzogne, di cui è possibile dimostrarne la falsità, ma che comunque hanno un grande appeal e riescono ad arrivare a milioni di persone attraverso i canali di trasmissione.

Fake news in politica

Dal punto di vista dell’opinione pubblica, la politica è diventata teatro di fake news.

È ovvio che i social network, al giorno d’oggi, permettano più facilità nella diffusione delle fake news, che hanno acquistato una grande capacità per quanto riguarda la distorsione dei fatti e per ottenere più consensi. 

Le accuse di divulgare fake news vengono utilizzate spesso in politica per delegittimare un avversario, specialmente durante i discorsi pubblici. Le cosiddette “bufale” si possono trovare sui quotidiani, quando i giornalisti non verificano la veridicità delle notizie, ma non solo. 

Si può parlare anche di fake news online, soprattutto negli Stati Uniti, dal 2016 con le elezioni presidenziali che hanno visto la sconfitta di Hillary Clinton, in cui i social sono diventati un grande veicolo di fake news.

La rapidità di trasmissione dei social network trova inoltre un grande pubblico che, molte volte per comodità o per pigrizia, crede a ciò che legge online senza voler fare ulteriori approfondimenti.

Fake news: un fenomeno recente?

Le fake news non sono derivanti da internet come molti credono ma esistono già da moltissimi anni, solo che venivano chiamate semplicemente “notizie false”. 

La rete però ha accentuato questo fenomeno rendendolo più diffuso e meno controllabile.
Le statistiche dicono che il 66% delle persone crede alle fake news e il 57% delle notizie false circolanti riguardano politica e cronaca.

Con la nascita e la diffusione di Internet, si pensava di avere a che fare con un mezzo democratico e onesto per condividere le informazioni ma in realtà, è ormai noto come miliardi di persone possano partecipare alla diffusione delle informazioni ad una velocità sconcertante.

È vero che la democratizzazione delle informazioni consente a tutti di partecipare, ma è altrettanto vero che chiunque può scrivere quello che desidera, includendo punti di vista distorti, opinioni ignoranti o disinformate.

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Teorie complottiste e fake news che hanno fatto il giro del mondo

Le teorie complottiste fanno parte della nostra vita quotidiana ed il complotto è sempre esistito, in quanto caratteristica intrinseca alla natura umana: l’uomo non è fatto per agire in modo trasparente e genuino.

Nel corso degli anni sono emerse molte teorie cospirative e alcune si sono rivelate frutto della paranoia delle persone, che ha raggiunto dei livelli di follia che hanno dell’incredibile.

Il caso Titanic

C’è una teoria complottista secondo cui il Titanic sia stato affondato di proposito, con lo scopo di eliminare tre persone molto ricche ed influenti che si opponevano alla creazione della “Federal Reserve”, fondata l’anno successivo alla tragedia.

La teoria del PID

Conosciuta come la teoria del PID (Paul is dead?) è la teoria della morte di Paul McCartney, secondo la quale il famoso cantante sarebbe morto in un incidente stradale e, per conservare il suo successo, la band avrebbe deciso di sostituirlo con un sosia, lasciando però indizi nelle canzoni e nelle copertine degli album.

"La Terra è piatta"

Una delle teorie più famose è quella che sostiene che la Terra sia piatta: nonostante la scienza abbia dimostrato da secoli la forma sferica del nostro pianeta, i terrapiattisti sono convinti che sia esso piatto.

Gli attacchi a Barack Obama

Una teoria complottistica, che ha visto protagonista Obama, era quella che affermava la capacità dell’ex presidente degli Stati Uniti d’America di controllare il meteo, al fine di distogliere l’attenzione dei cittadini da alcune polemiche alimentate nei confronti della Casa Bianca.

Riguarda proprio l’ex presidente degli Stati Uniti una delle bufale più diffuse negli ultimi anni: in passato, una serie di falsi del certificato di nascita di Barack Obama, hanno messo in discussione il suo luogo di nascita, ed è risaputo che non si potrebbe aspirare alla Casa Bianca senza essere nati in America. Le voci sono state poi smentite affermando che Obama sia nato ad Honolulu, Hawaii.

L'email di Bill Gates

Una delle prime fake news circolate su Internet è stata creata nel 1997 ed era un’email che cominciò ad arrivare a tutti nel mondo, il cui contenuto citava la volontà di Bill Gates di regalare del denaro ai destinatari.

Sono numerose anche le fake news sui vaccini, specialmente con l’attuale pandemia; una di queste troverebbe in uno dei vaccini autorizzati una possibile causa dell’infertilità femminile. 

Il web e i social network hanno oggi più che mai un potere colossale, poiché il flusso di disinformazione che si diffonde online è in grado di manipolare gli utenti mediante la pubblicazione di notizie allarmanti.

Plandemic

Si è inoltre diffusa in un video online e in un libro diventato bestseller su Amazon, “Plandemic”, la teoria che mette insieme una serie di bufale sul Coronavirus parlando di un piano più ampio. Quello secondo cui i “ricchi” avrebbero diffuso il Coronavirus per aumentare i tassi di vaccinazione.

L’autrice del video è Judy Mikovits, una biochimica caduta in disgrazia nella comunità scientifica dopo uno scandalo nel 2009 per uno studio che collegava la sindrome da fatica cronica a un retrovirus rinvenuto dai gatti.

Il video è stato rimosso da diverse piattaforme (come Facebook e Youtube) per la diffusione di informazioni fuorvianti e dannose alla salute pubblica.

Tra le affermazioni presenti nel video c’è l’idea che le mascherine, non solo non difendano dal virus, ma che il loro utilizzo sia pericoloso; che chiudere le spiagge sia un errore perché nell’acqua ci sono dei microbi guaritori e che il numero dei morti si stato esasperato per aumentare il controllo sulla popolazione.

Fake news e Covid-19

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Sono tante le teorie complottiste che ruotano attorno al Covid-19 e tra le più diffuse c’è quella che il virus sia una “punizione” da parte degli Stati Uniti nei confronti dei suoi principali avversari: la Cina (a causa della guerra sui dazi), l’Italia (per via del suo allontanamento dall’USA) e l’Iran (per i trascorsi che ci sono stati tra i due Paesi).

Un’altra teoria è di chi crede che il virus sia stato utilizzato come mezzo per far calare il prezzo del petrolio, per questo motivo avrebbe colpito principalmente l’Iran (uno degli Stati con maggiori giacimenti di oro nero), l’Italia (il suo principale partner commerciale) e la Cina (il primo importatore al mondo di petrolio).

Un’altra grande pista complottista è stata quella secondo cui il Coronavirus in realtà potrebbe essere una grande macchinazione messa in atto da Bill Gates, padrone dell’OMS in quanto più grande donatore privato, per dominare il mondo. Gates nel 2015 avrebbe pagato un istituto di ricerca britannico per creare il Coronavirus e brevettarne anche il vaccino, con il fine di diffonderlo nel mondo, creare una situazione di panico, e poi dominare la Terra attraverso il vaccino.

Secondo alcuni in realtà questo nuovo virus sarebbe solo una grande menzogna, e a far ammalare le persone e ucciderle, non sarebbe il virus, ma il 5G. La nuova tecnologia, infatti, sarebbe estremamente dannosa per l’organismo, e provocherebbe tutti i sintomi riscontrabili nei malati di Coronavirus.

C’è da dire che la pandemia ha generato molta paura nella popolazione mondiale, ma è emerso anche il “sense of humor” di molti utenti della rete, scatenando l’immaginazione di chi giornalmente crea video, immagini e altri contenuti ironici, per cui talvolta è difficile distinguere le bufale dalle informazioni reali.

Fonti

Sitografia

Bibliografia

  • Baldi B. "Complotti e raggiri. Verità, non verità, verità nascoste" Roma, Viella, 2018.

Food Marketing: come portare in tavola il tuo piatto forte

Al giorno d’oggi è sempre più difficile stare al passo con i tempi e seguire le ultime tendenze del food marketing.

Il consumatore contemporaneo e i suoi bisogni sono cambiati, i mercati si sono estesi in fretta e la concorrenza è sempre più alta. Per riuscire ad avere successo nel Food Marketing bisogna sapersi distinguere, vediamo insieme come.

Cos’è il Food Marketing

Il cliente, cosciente e continuamente aggiornato, non è più condizionato da una semplice azione di vendita, ma cerca un’esperienza da vivere e un’identità nella quale potersi rispecchiare.

Non basta più vendere un prodotto di alta qualità: le persone cercano nel cibo un’esperienza estetica ed sensoriale.  

Il Food Marketing rappresenta le strategie commerciali e comunicative che aumentano la vendita dei prodotti e la percettibilità di un brand, ma allo stesso tempo permettono un rapporto duraturo tra l’azienda e i clienti.

Il Digital Marketing a servizio del food

L’Italia è la patria della cucina mediterranea amata in tutto il mondo, dove il cibo diventa prelibatezza per il gusto, l’olfatto e la vista.

Per questo motivo gli italiani, da sempre abituati a delle dignitose pietanze, diventano involontariamente severi clienti con alte esigenze. 

Il tema del food è capace di diventare istantaneamente virale sui social e in rete.

Alcuni dati confermano che:
#food è il 25° hashtag più utilizzato di sempre, con più di 252 milioni di citazioni.
Milioni di utenti visitano quotidianamente un sito relativo al food.

La migliore ricetta per parlare di cibo

Nel settore alimentare è importante immaginare e sviluppare da subito una pianificazione strategica efficace e pensata appositamente per il proprio brand.

Sicuramente il modo migliore per coinvolgere ed emozionare è quello di raccontare una storia. Le storie fanno parte della vita di ogni persona: siamo sempre stati abituati a vedere il mondo che ci circonda attraverso la narrazione. Creare una storia quindi permette di accrescere un solido rapporto con il consumatore, capace di essere sorpreso e sapersi raccontare.

Il cibo non rappresenta più solo un bisogno, perché i consumatori ricercano qualcosa di più quando entrano in un locale o testano un prodotto: originalità, colori, sapori e sensazioni.


Un’ottima campagna di Food Marketing deve riuscire ad intercettare le preferenze dei clienti, coltivando le diverse tipologie di contenuto in grado di catturarne l’attenzione. 

La comunicazione visual è senza ombra di dubbio il canale favorito, soprattutto in risposta ai clienti. Le immagini, assieme alle parole riescono a stimolare ricordi, emozioni e sensazioni.

Quante volte ti è capitato di provare fame solamente alla vista della foto di un gustoso piatto?

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Fotografare il cibo è diventato un vero e proprio mestiere

Da quando i social media fanno parte della nostra quotidianità, è cresciuto sempre di più un interesse per tutto ciò che riguardasse immagine e fotografia.

Instagram rappresenta un esempio lampante, gioca sull’immediatezza e sulla curiosità, sulla condivisione di immagini con brevi commenti. Tra le tante possibilità di interazione e le immagini visibili, sicuramente le foto di cibo hanno sempre ottenuto un grande riscontro.

Perché è così interessante fotografare il pasto che stiamo per consumare?

Ritrarre il cibo è un’arte, questa è una certezza ormai. La food photography è una specializzazione della fotografia, la produzione di immagini attraenti di cibo utilizzate per scopi pubblicitari e per promuovere i piatti dei ristoranti, delle catene di fast food, dei bistrot e dei locali a tema.

Da Bun Burgers si mangia gratis in cambio di un TikTok

Bun Burgers si è sempre distinto dalle altre catene di fast food per la sua forte comunicazione e strategia adottata sui social.

Innanzitutto, spicca la possibilità di ordinare ogni burger nella versione veggie grazie all’utilizzo di Beyond Meat. Il design di interni stimola l’appetito, è fresco e colorato: luci fluo e insegne neon, insieme ad un ottimo hamburger, rendono l’esperienza assolutamente instagrammabile.

Per la sua nuova apertura a Milano, l’anima digitale di Bun Burgers ha deciso di utilizzare TikTok per una campagna che ha fatto tanto parlare di sé nel modo giusto. Il locale ha lanciato una promo attiva per tutto il mese di novembre.

Per partecipare bastava visitare uno dei vari Bun Burgers, creare e condividere un TikTok e mostrarlo in cassa per ricevere un menù gratis a scelta.


Inutile dire quanto il contest sia andato virale sui social, facendo letteralmente impazzire gli utenti, che si sono mostrati sempre più interessati e coinvolti.

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Tutti pazzi per il Selfiefood

La tendenza di postare piatti visivamente estetici, ha dato vita ad una nuova moda: il selfiefood. Basta un filtro, un’inquadratura pensata ad hoc e una luce perfetta, per realizzare un selfiefood di alta qualità.

È importante che le pietanze mangiate non siano tanto gustose, quanto fotogeniche per i social. 

C’è chi lo fa per professione, chi per semplice passione. Tutti, ma proprio tutti, amano condividere i propri selfie di cibo: dalle celebrità al nostro amico fissato, dagli amanti del cibo ai blogger. 

Per migliorare la qualità delle foto dei propri clienti, il locale Dirty Bones di Soho fornisce gratuitamente il kit “Foodie Instagram Pack”.

Foodie Instagram Pack: il kit per scattare foto perfette

Dirty Bones, la catena a Soho che offre piatti e bevande newyorkesi newyorkese, fornisce ai clienti un “Foodie Instagram Pack” gratuito, permettendo loro di poter fare foto uniche, da condividere sulla piattaforma social per riscuotere successo. Ogni kit in dotazione contiene una luce a Led, un caricatore portatile, delle lenti grandangolo e un bastone per selfie.

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"Foodie Instagram Pack" - Dirty Bones
«Le persone che vengono a mangiare al Dirty Bones sono in genere molto attive sui social e questo ci spinge ad inventare di continuo piatti e cocktail che non siano solo deliziosi, ma anche visivamente attraenti»
Cokey Sulkin
Fondatore del Dirty Bones

Secondo i professionisti, il “Foodie Instagram Pack” è un approccio fresco, innovativo e intrigante che sfrutta una strategia di marketing efficace nel mondo della ristorazione.
È quindi prevedibile pensare che in futuro altri ristoranti possano adottare servizi simili o ancora più insoliti e sorprendenti.

Conclusioni

Il cibo non è soltanto una necessità biologica, ma trasmette moltissimi significati comunicativi, relazionali e sensoriali. È una costante nel nostro vivere quotidiano, esprime sapori che più ci rappresentano, riassapora ricordi i concreti e quelli meno tangibili, simboleggia un intenso viaggio emotivo e sensoriale.

La fidelizzazione al brand nell’era digitale, il caso Burberry

Le nuove tecnologie e la digitalizzazione stanno producendo un cambiamento totale nel modo di comprare, pensare, lavorare e vivere.

Non solo da un punto di vista puramente tecnologico e informatico, ma anche sociologico, filosofico e psicologico. Negli ultimi anni si è scritto molto sui profondi mutamenti che il digitale sta apportando alla vita dell’uomo e al suo essere cittadino del mondo.

Una forte accelerazione a questo cambiamento è stata data dalla pandemia del 2020-2021 che da un giorno all’altro ha paralizzato l’intero pianeta; questo nuovo scenario mondiale ha spinto verso soluzioni alternative e reso indispensabile il ruolo della tecnologia digitale.

Il potere delle community

A seguito della lettura del testo #community manager dietro le reti ci sono le persone di Osvaldo Danzi e Giovanni Re, ho cercato di comprendere come anche nel settore della moda, queste innovazioni e cambiamenti avessero preso atto.

Non ero a conoscenza dell’utilizzo delle community così come sono state illustrate nel libro e questo mi ha fatto riflettere su quanti nuovi metodi di fidelizzazione e comunicazione potessero prendere forma soprattutto con l’innovazione digitale.

Argomenti come la brand community, la digitalizzazione e purtroppo i postumi economici e psicologici della pandemia in corso di Covid-19 mi hanno aperto la strada ad effettuare nuove ricerche di settore per comprendere i nuovi potenziali scenari che si prospetteranno in un prossimo futuro.

Ciò che è emerso è una nuova sfida che attende le aziende di moda nel passaggio dalla vecchia filiera di produzione e commercializzazione fino alla nuova necessità di maggiore presenza sul web usando tecnologie innovative e impensabili fino a pochi anni fa.

Strategie da brevi a lungo termine

Dal sempre maggior utilizzo dell’e-commerce alla realtà aumentata come trampolino di lancio per una nuova strategia di proposizione e vendita dei prodotti. Il nuovo mercato impone scelte immediate per fronteggiare adesso una situazione di emergenza ma in futuro da sfruttare e ampliare per creare un continuum che porti i brand ad un livello superiore e adeguato ai tempi.

Sicuramente non scompariranno i negozi e non si perderà il contatto con il consumatore ma questo potrà essere affiancato da un coinvolgimento totale e personale del quale il consumatore potrà godere direttamente a casa propria.

Umanizzazione del digitale

Da affiancare agli studi prettamente informatici che stanno proiettando i brand in un mondo virtuale tutto da scoprire c’è la continua ricerca a livello sociologico e psicologico di rendere questi nuovi strumenti “umani”. 

Oramai la frontiera più importante è quella della umanizzazione del digitale in correlazione con il riposizionamento al centro dell’intero piano marketing del cliente. Accettando il fatto che il cliente possa non essere direttamente presente e a contatto con il prodotto emerge la necessità per le aziende di entrare in empatia con il consumatore per fornire un servizio sempre più mirato alle sue esigenze.

L’importanza di creare community di brand per accrescere non solo la fidelizzazione ma anche il senso di appartenenza andranno di pari passi con la realizzazione di una sempre maggior personalizzazione del servizio.

Stop and Go - Covid 19

citazione chris morton

Queste righe racchiudono il concetto di ciò che sta investendo il mondo della moda in questo difficile periodo. L’ineluttabilità delle conseguenze di una pandemia globale deve portare ad un’attenta analisi di cosa è successo ma soprattutto ad una necessaria visione di un futuro diverso che sappia cogliere, anche da un momento negativo come questo, linfa nuova di cambiamento.

All'inizio della pandemia

I dati di partenza sono pesanti: un danno economico stimato con cali di fatturato di oltre ⅓ solo nel 2020. Il punto di arresto si è concretizzato su due livelli: in un primo momento con lo stop alla produzione dovuto alla necessità di chiusura delle fabbriche e contemporaneamente con la chiusura della distribuzione che ha comportato una paralisi totale del mercato.

Alcune realtà si sono parzialmente riconvertite in aziende atte a produrre materiale indispensabile per il momento che stiamo affrontando ma sicuramente anche questa occasione non ha risanato il danno ingente all’economia di settore.

 

La risposta dei consumatori

In un successivo momento è intervenuto un comportamento psicologico di sfiducia dell’acquirente che, sull’onda delle preoccupazioni pandemiche, non ha trovato più necessario acquistare beni che, viste le circostanze, apparivano superflui.

Questi nuovi e inaspettati scenari hanno spinto i player del settore moda a rivedere l’intera filiera del comparto, dalla produzione alla commercializzazione, per cercare di adattarsi il più velocemente possibile alle nuove esigenze di vita e di consumo.

La digitalizzazione del fashion marketing

L’utilizzo del canale digitale soprattutto nel momento dell’acquisto del prodotto (e-commerce) da anni sta portando ad abitudini di consumo differenti presupponendo nel futuro scenari nuovi anche per il settore moda.

Questa trasformazione, che all’inizio era una semplice evoluzione moderna con l’introduzione nel fashion marketing dell’utilizzo del digitale, ha subito un’accelerazione pazzesca in un momento in cui l’impossibilità di farsi raggiungere fisicamente dal cliente ha cambiato radicalmente i panorami di promozione e vendita.

Infatti non è stata soltanto la chiusura dei negozi, ma anche l’impossibilità di presentare sfilate o di creare altre occasioni di contatto fisico tra brand ed acquirenti a portare verso un ripensamento dell’intero impianto.

Nuove strategie di vendita e fidelizzazione

Il ricorso all’utilizzo di strumenti virtuali, a due anni dall’inizio della pandemia, non viene più percepito come unico elemento possibile di interrelazione con il mondo esterno, ma come prolungamento delle interazioni fisiche.

Questo cambio di mentalità nel consumatore sta portando anche il settore moda a rivolgersi ad un marketing differente e capace di esplorare potenzialità digitali che fino ad oggi non sembravano avere così tanta importanza.

Quello che fino a questo momento poteva apparire come un gioco accattivante adesso diventa strategia di vendita e fidelizzazione. Con una visione rivolta al futuro l’intero settore sta cogliendo l’evoluzione digitale come nuovo momento di contatto tra cliente e brand spostando il piano d’incontro dall’esterno all’interno delle abitazioni. 

Fashion brand e digital

Il cambiamento che il digitale sta imponendo al fashion marketing lo si riscontra su due diversi livelli: il primo strettamente inerente la capacità di analisi dei dati che l’informatica offre, mentre il secondo rivolto ad un cambiamento radicale dello scenario di promozione e fidelizzazione.

 

L’utilizzo delle piattaforme informatiche e dei social offre la grande opportunità di raccogliere quanti più dati possibili sul cliente: la profilazione, la qualificazione e la gestione di interi patrimoni di dati portano alla possibilità di analisi di mercato precise, di piani budget ben delineati e di interventi continui di ricerca mirati alle esigenze contingenti.

D’altronde diventa e diventerà sempre più importante la centralità dell’acquirente in un mondo che ha definitivamente spostato l’asse dal brand all’utente.

Un nuovo sistema “clientecentrico”

clientecentrico

Le esigenze dei consumatori stanno cambiando velocemente e il processo di trasformazione delle aziende operanti sui mercati retail deve poter procedere di pari passo: empatia, personalizzazione e coinvolgimento.

L’ottica di promozione e vendita non può basarsi soltanto sulla conoscenza storica del marchio e sulla catena dei punti vendita, è cambiato totalmente il panorama di contatto e quindi il sistema è diventato “clientecentrico”.

 

L’azienda deve raggiungere il cliente nella propria abitazione, si deve mostrare, deve essere in grado, sfruttando la tecnologia digitale, di creare emozioni e desideri anche in un panorama di distanza. Diventano peculiari i concetti di community e di user experience per stimolare il cliente all’acquisto.

1. Brand community

Già da anni le brand community hanno rivoluzionato il modo di fare marketing espandendo all’intero mondo internet i confini aziendali. La brand community è una community online basata sull’interrelazione fra azienda e consumatori. Differentemente dagli altri strumenti di marketing i membri delle community non solo parlano con il brand ma anche fra loro e con i dipendenti.

2. La cultura del cliente

Non si tratta più di una comunicazione unidirezionale a cascata ma di una stimolante interazione continua fra esterno e interno che permetterà all’azienda di calibrare meglio le scelte di marketing future. Il cliente si sente ascoltato e aumenta dentro di sé la sua percezione di essere importante nelle scelte aziendali, acquista fiducia in sé e nel brand ed è sempre più orgoglioso di farne parte.

3. Un cliente fidelizzato

Il senso di appartenenza, la comunicazione e la condivisione fanno sì che il rapporto fra utente e brand si estenda andando oltre il semplice acquisto ma acquisendo un valore emozionale che lo porterà ad essere non solo fedele ma anche affezionato. Dalle community all’atteggiamento “digital-first” degli utenti che sarà destinato a consolidarsi in futuro.

4. Marketing empatico

La nuova grande sfida per le aziende sarà proprio quella di sapersi differenziare non solo per i prodotti offerti ma anche per la capacità di creare empatia con l’acquirente, di saperlo coinvolgere e farlo sentire parte di un grande progetto, di conquistarlo non solo più a livello di contatto fisico con l’articolo venduto ma anche a livello indiretto con ogni strumento la tecnologia possa mettere a disposizione. 

La differenza tra User e Customer Experience

User Experience

User Experience o UK è il termine che identifica la relazione fra una persona e un prodotto o servizio. Riguarda, quindi, tutti gli aspetti che coinvolgono l’interazione fra un utente e un brand, è letteralmente “l’esperienza” coinvolgendo in essa tutti gli elementi affettivi, valori ed emozioni che accompagnano il soggetto durante questo percorso

Come migliorare la user experience?

Questa viene sicuramente migliorata grazie all’ausilio delle tecnologie digitali come l’intelligenza artificiale e per questo motivo diventano sempre più importanti i dati di base su cui lavorare per creare messaggi, timing e contenuti più in linea con le esigenze dei singoli utenti.

I brand sono chiamati a compiere una vera e propria connessione diretta con il consumatore che deve riuscire a provare tutte quelle emozioni positive che lo fidelizzano pur rimanendo davanti al proprio pc.

Eliminare il limite della distanza fisica con un’apertura diversificata dei punti di contatto con il brand attraverso i dispositivi mobili.

Customer experience

La Customer Experience o CX è l’esperienza complessiva che i clienti vivono durante tutta la loro relazione con il brand. Le aziende dovranno, con i loro piani marketing, acquisire e consolidare la fiducia del consumatore mettendo in atto tutte le strategie necessarie per costruire nuovi modelli di profilazione e nuove soluzioni per creare sempre maggior empatia e senso di appartenenza con esso. 

Come migliorare la customer experience?

Investire sulla customer experience diventa fondamentale per aiutare a comprendere meglio i bisogni e le abitudini e arrivare a costruire un’esperienza unica per il singolo cliente unendo in futuro sia il canale digitale che il contatto diretto. L’e-commerce è antecedente al lockdown come modalità di acquisto ma la chiusura forzata ha portato ad un approccio differente da parte del consumatore che deve esser tenuto in forte considerazione per le strategie future.

Cosa vuol dire entrare nella comfort zone del cliente?

L’accento in ogni piano marketing degli anni a venire dovrà essere necessariamente posto sulla dimensione umana dell’individuo, sulle sue paure, sui suoi desideri e necessità calibrando continuamente interventi e azioni. Solo ricostruendo la fiducia del consumatore si potrà ottenere una fidelizzazione che abbia radici solide nel tempo.

E il piano su cui giocare questa sfida sarà la casa di ogni singolo acquirente, sarà entrare in quella confort zone che ognuno di noi è stato costretto a crearsi in un momento così difficile.

comfort zone

Strumenti della trasformazione digitale

La necessità è diventata quella di fornire attraverso touch point esperienze uniche e coinvolgenti e sempre più interattive.

Vi sono alcuni strumenti e tendenze ultimamente utilizzate dalle case di moda che stanno portando verso una trasformazione digitale importante e irreversibile, vediamone alcuni insieme.

1. Virtual Showroom

Il virtual showroom, ovvero la presentazione delle collezioni interamente virtuale, permette a buyer e partner di consultare e visualizzare foto, schede tecniche del prodotto, immagini interattive in un ambiente riservato e protetto e ovunque si trovino. Questa forma di tour virtuale è utilizzata anche dai clienti che hanno la possibilità di visitare, grazie anche alla realtà aumentata, non spostandosi dalla propria sedia i più lussuosi negozi di moda del mondo. Metodologia fortemente voluta da Prada, Valentino, Dolce&Gabbana e Ralph Lauren. Proprio quest’ultimo, per esempio, ha creato un negozio virtuale che consente di visitare 4 dei più importanti negozi del brand: New York, Parigi, Hong Kong e Beverly Hills a portata di un semplice click.

2. Gaming

Il sempre maggiore impiego di giochi al fine di attirare i consumatori sta diventando uno strumento importante di marketing su cui molte aziende stanno puntando. Il fenomeno cosiddetto della “gamification” ha attirato numerose start up di settore creando un notevole interesse. Ad esempio una piattaforma presentata dal marchio Sunnei ha come protagonisti 10 avatar del brand vestiti con abiti della nuova collezione. Il gioco non ha uno scopo preciso e permette l’utilizzo anche da cellulare. Si è dimostrato un divertente modo per coinvolgere la community globale del brand cosa che la passerella non riuscirebbe a fare. Altri importanti brand di moda hanno annunciato il lancio di una game-app interattiva che permette agli utenti di creare un avatar personalizzato e fare sfide fashion con gli altri utenti.

3. Sfilate online

Le sfilate online saranno sempre più pensate non solo come una necessaria alternativa ma anche come una normale prosecuzione delle sfilate in presenza. Inoltre, attingendo alle potenzialità della realtà aumentata sarà possibile attivare layer informativi e innumerevoli punti di vista per far vivere una esperienza totale anche a distanza. Un esempio importante è stata una delle prime Fashion Week post-pandemia, tenutasi dal 22 al 28 Settembre 2020 a Milano. Hanno partecipato i più quotati stilisti del mondo insieme a giovani emergenti con sfilate live e digitali. Stesso schema seguito anche dagli eventi come il Fuorisalone. Sfilate a porte chiuse e diretta televisiva per Armani, emotivamente colpito dalla pandemia, e un graditissimo rientro in patria di Valentino ne sono uno degli esempi più eclatanti.

4. Camerini prova virtuali

Si è parlato molto di questo argomento nella 4° edizione del Summit e-P (il più importante appuntamento italiano sull’innovazione digitale nel campo della moda) organizzato da Pitti Immagine e svoltosi in streaming il 21 Ottobre 2020. Il camerino di prova virtuale prevede la creazione di un avatar che possa indossare gli abiti al posto proprio sperimentando abbinamenti, colori, modelli e tessuti. Questa idea innovativa era stata, ad esempio, proposta da Gap e dalla sua DressingRoom. La multinazionale dell’abbigliamento aveva presentato nel 2017 un’app per la prova degli abiti in realtà aumentata. Anche in questo caso viene creato un proprio avatar e successivamente è possibile iniziare la prova degli abiti in ambientazioni sempre più curate e personalizzabili. 

5. Personal shopper digitali

Il personal shopper digitale è uno specialista di moda in carne e ossa che offre consigli in streaming e può mostrare al cliente i look indossati, indicazione sui prezzi e suggerimenti sulle occasioni d’uso. Un’attenzione particolare e diretta al singolo consumatore e alle proprie esigenze che permette di dare quella sicurezza nell’acquisto che la distanza può naturalmente togliere. Un esempio di questo nuovo modo di fare acquisti lo possiamo ritrovare nelle scelte attuate dal gruppo Miroglio, per i punti vendita Motivi ed Elena Mirò. Il brand, infatti, ha scelto di sfruttare il servizio Go Instore, grazie al quale le clienti possono collegarsi direttamente al sito e farsi consigliare dalle addette vendita proprio come se fossero in negozio.

Il caso Burberry

Il brand Burberry è stato uno dei primi a cogliere l’occasione della multicanalità delle strategie con scelte intraprese per meglio posizionarsi a livello social e di interrelazione digitale.

azienda 100% digitale

Nel 2006 Angela Ahrendts e Christopher Bailey, CEO e Chief Creative Officer del marchio, hanno dichiarato la loro volontà di trasformare Burberry nella prima azienda di moda “100% digitale”. Attraverso le grandi campagne di content marketing, dal 2006 ad oggi, la casa di moda inglese ha contribuito a trasformare il brand in una macchina generatrice di contenuti di successo.

La realtà aumentata per esperienze sempre più personali

Oggi, con l’ulteriore strumento della Realtà Aumentata, primo brand ad averla usata nel campo della moda, l’azienda sta cercando di dare un impulso propulsivo alla commercializzazione utilizzando la tecnologia per creare un’esperienza di acquisto sempre più emozionante e cucita intorno al cliente. È stata utilizzata la piattaforma Google per rendere possibile ai consumatori di interagire nel modo più semplice creando i propri abbinamenti dopo averli ponderati in associazioni personalizzate (ad esempio può essere posizionata una borsa vicino ad un abito in realtà aumentata nell’ambiente che ci circonda per avere una migliore idea dell’accostamento e del prodotto che stiamo per acquistare).

Gaming Technology

Altro strumento digitale fortemente voluto da Burberry e utilizzato è quello della Gaming Technology attraverso una stretta collaborazione con l’azienda Koffeecup. Insieme sono arrivati allo sviluppo di un software che ha rivoluzionato lo scenario del fashion design. 

Tutto questo ha reso sempre più veloce e semplice il posizionamento delle stampe sui tessuti riducendo il consumo di carta nella fase di progettazione dei campionari. Quindi meno sprechi di fabbrica e un’azienda che si pone agli occhi del cliente come virtuosa e attenta alla sostenibilità per recuperare fiducia e affidabilità.

L’importanza dell’esperienza del marchio

Angela Ahrendts ha dimostrato in questi anni una visione lungimirante volta a creare una vera e propria “impresa- social”, dove impiegati, clienti e fornitori condividono la stessa esperienza del marchio, sia attraverso negozi che piattaforme social. Una forma ancora più moderna di community ove l’interscambio fra azienda e utenti possa definirsi totale. Attraverso un insieme di applicazioni (sviluppate grazie a Salesforse.com) si permette a impiegati di vari reparti e ai clienti di reinventare la loro interazione come brand community. Utilizzando un programma chiamato Chatter, i dipendenti hanno accesso ai dati sulle visite virtuali, alle attività dei visitatori, possono commentare in tempo reale tweet o interventi sul blog. Ognuno può aprire il proprio “portale-Burberry” e iniziare ad interagire sui più svariati argomenti.

Co-creazione di un’azienda

L’azienda, d’altro canto, può sfruttare questi canali per fissare appuntamenti nei punti vendita per i più disparati motivi (dalla prova per acquisto alla sostituzione o riparazione di capi). I dipendenti si sentono perfettamente integrati a tutti i livelli dell’azienda e gli utenti possono sfruttare tutte le risorse tecnologiche messe in campo da Burberry per diventare parte integrante del brand: sfilate, suggerimenti su linee future, chat e acquisto di capi.

La vera rivoluzione sta quindi nella co-creazione umana: impiegati e clienti che lavorano insieme alla riuscita di un brand di successo.

Conclusioni

In questo periodo la strategia migliore per le aziende potrebbe essere quella intrapresa da Burberry, unire sapientemente il proprio passato con un futuro che si prospetta sempre più tecnologico e avveniristico.

Per fare questo si dovrà affrontare un presente sicuramente difficile ed incerto sfruttando i bisogni e le conoscenze in nostro possesso e lanciandosi in una sfida che va ad unire online e offline, tenendo sempre al centro di ogni scelta il consumatore finale.

Fonti

L'articolo sopra riportato è la rielaborazione di un'analisi e riflessione realizzata da me in data 17/02/2021. 

Bibliografia ulteriore: "#community manager dietro le reti ci sono le persone" di Osvaldo Danzi e Giovanni Re

Le Migliori Serie TV sul Marketing, il Digital e la Comunicazione

Tutti i segreti del Marketing, del Digital e della Comunicazione stando comodamente seduti sul divano a sgranocchiare pop corn: si può fare!

Comunicare il patrimonio culturale: l’arte e l’archeologia alla prova della digitalizzazione

Quando senti la parola “archeologia” le prime cose che ti vengono in mente sono Indiana Jones e forzieri nascosti? Sappi che stai sbagliando strada, ma probabilmente non è colpa tua.

Il mondo dei patrimoni culturali, e soprattutto il mondo dell’archeologia, non vanno esattamente di pari passo con le ultime frontiere della comunicazione digitale, dello storytelling e della digitalizzazione.

Ed è solo ultimamente (possiamo dire “grazie” alla pandemia?) che le cose sono cominciate a cambiare. Vediamo in che modo si è iniziato a comunicare il patrimonio culturale.

Il Digital per valorizzare le arti e l'archeologia

In realtà è dal 2014-15 che sul web hanno iniziato a comparire molti blog e account social legati a gruppi di ricerca, siti e musei di ogni tipo. 

Questo evento può essere letto come la risposta al spesso lamentato “gap” tra ricerca accademica, tutela e fruizione da parte del pubblico. 

Ma cosa manca, e in cosa può aiutare il web nella valorizzazione e comunicazione del patrimonio culturale e archeologico

Innanzitutto, potrebbe abbattere tutti quei luoghi comuni che ruotano intorno alla disciplina: avventurieri, cercatori di tesori nascosti e protetti da chissà quali trappole, maneggiatori di sciabole).

Inoltre, potrebbe far riconoscere al pubblico l’importanza della materia, per la quale le competenze sono molteplici. 

Infine, potrebbe essere un generoso aiuto per la promozione e la valorizzazione del nostro territorio.

Tuttavia, fino al giorno d’oggi, l’errore più comunemente commesso è stato quello di spettacolarizzare il lavoro finito, cioè il reperto o il sito archeologico stesso, senza mostrare né processi e metodi di ricerca, né ricostruzioni e interpretazioni. 

In poche parole, il pubblico rimane all’oscuro di un avvincente backstage.

Qual è il giusto marketing per il patrimonio culturale?

Cosa serve, dunque per comunicare il patrimonio culturale?

Sicuramente un approccio mediato tra tecnologie, linguaggi e creatività sarebbe un beneficio. In questo modo si farebbe avvicinare la conoscenza agli attuali mezzi di comunicazione, evitando una decontestualizzazione e una favolizzazione del patrimonio culturale. 

Il tutto dev’essere corretto, ma allo stesso tempo accattivante, così da attrarre e incuriosire il visitatore sia online che sul luogo.

La promozione dev’essere dal basso, vicina al pubblico, e tramite i blog e i social si ha l’occasione di raggiungere velocemente un enorme numero di persone. Il linguaggio e le strategie da adottare sono da adeguare al target di pubblico prescelto.

La spinta della pandemia

Ebbene sì, tutta la situazione dovuta al Covid-19 è stato un enorme incentivo per muovere passi in questa direzione; ha spinto musei di ogni tipo a considerare effettivamente il loro ruolo nella società, la loro poca presenza digitale e la loro comunicazione spesso inefficiente. 

L’importanza di comunicare il patrimonio culturale è stata ribadita anche dallo stesso Ministro della Cultura Dario Franceschini in un’intervista per la rivista Finestre sull’Arte nel 2020:

«Si sta andando verso una rapida evoluzione della comunicazione delle istituzioni culturali, si sta entrando nella maturità dei musei 4.0 nella quale il digitale avrà sempre di più un ruolo preponderante. Che non andrà a sostituire la frequentazione dei musei, ma la renderà più piacevole, istruttiva ed agevole».

Dario Franceschini

 

Era dagli anni della Seconda Guerra Mondiale che i musei non chiudevano al pubblico. 

Il 13 marzo 2020 il ministero dei beni culturali ha esortato ufficialmente tutti gli enti del patrimonio culturale a eseguire una digitalizzazione dei loro contenuti, consentendo l’afflusso di un pubblico più numeroso, assente a causa delle restrizioni sanitarie. 

Una volta dettate le linee guida generali, molti musei hanno iniziato a mettere a disposizione un catalogo digitale dei contenuti, consultabile direttamente online.

Negli ultimi anni sono poi proliferate altre e varie iniziative digitali, un cambiamento obbligatorio che ha permesso al settore di abbandonare la propria autorevolezza e lanciarsi nel mondo dei social. 

I nuovi ambienti digitali richiedono un linguaggio giovane e accattivante, che certo non esclude la presenza di progettualità e professionisti per poter comunicare il patrimonio culturale in maniera efficace.

Il mercato dei tour virtuali

In un mondo ora più che mai digitalizzato, le istituzioni museali e i siti archeologici hanno dovuto escogitare – e sono tutt’ora in fase di scoperta – metodi per rendere i loro contenuti fruibili dal pubblico online. 

Sicuramente i più gettonati sono i tour virtuali, che rendono più immersiva e attiva la visita, pur non sostituendo l’esperienza fisica.  

Museo dell’Ara Pacis, Roma

Un esempio è la visita online del monumento dell’Ara Pacis, a Roma.

Il visitatore digitale può muoversi all’interno dell’Ara semplicemente usando il mouse, ottenendo approfondimenti su di essa e sulle sue raffigurazioni cliccando su specifici punti dati dal sito.

Museo dell’Ara Pacis di Roma
Museo dell’Ara Pacis di Roma

Museo Archeologico Nazionale di Taranto (MArTA)

In questo caso la fruizione del servizio è gratuita, ma altri musei, come il Museo Archeologico Nazionale di Taranto (MArTA), offrono invece tour virtuali in cambio di una donazione pecuniaria.

Tutte queste iniziative hanno contribuito alla creazione di un vero e proprio mercato virtuale di tour guidati, sia dai siti stessi che con la partecipazione di guide certificate che interagiscono e spiegano al visitatore a casa direttamente dal luogo della vista. 

E non finisce qui.

Queste novità finalmente introdotte nel mondo dei musei e dell’archeologia hanno fatto sì che queste non fossero più realtà passive, chiuse e dalle nozioni altisonanti. Hanno permesso di sviluppare una relazione molti a molti: specialisti e studiosi che aprono le loro competenze alla totalità e al linguaggio del pubblico. 

Nel campo dell’archeologia, invece, sono nati molteplici blog e visite virtuali mirati a raccontare le giornate di scavo, coinvolgendo finalmente un pubblico ignaro di cosa si celasse dietro al reperto esposto nella teca di un museo.

Questo aspetto di coinvolgimento del pubblico al lavoro archeologico non è una novità. Già l’archeologo Mortimer Wheeler (1890-1976) realizzava dei veri e propri “open day” sul luogo dello scavo, permettendo a tutti di partecipare osservando il lavoro. 

Il maggiore coinvolgimento del pubblico porta beneficio anche ai musei stessi, principalmente per due motivi:

  1. permette di attrarre più visitatori e ad aumentare il loro interesse;
  2. consente la raccolta dei loro feedback, che siano diretti o tramite commenti sui social, permettendo così ai curatori di individuare punti deboli su cui effettuare migliorie. 

Galleria degli Uffizi, Firenze

La Galleria degli Uffizi di Firenze è uno dei musei più famosi al mondo, con una pagina Instagram che conta 665k follower.

Nonostante un’ottima presenza digitale – su Instagram è tra i musei più seguiti al mondo, contando oggi ben 678mila follower -, durante il 2020 il museo si è lanciato nella creazione di un profilo su TikTok, la piattaforma più in voga tra i giovanissimi.

Una bella ambizione: il linguaggio e il target di questa piattaforma non sono tra i più facili da progettare e da coinvolgere, ma in fondo è proprio questa la sfida di ogni piattaforma social. 

Inoltre, la visita del museo da parte di Chiara Ferragni è stata il fattore scatenante di un successivo boom di visite, grazie ovviamente alla fortissima presenza social della influencer.

Chiara Ferragni agli Uffizi davanti alla Nascita di Venere di Sandro Botticelli
Chiara Ferragni agli Uffizi davanti alla Nascita di Venere di Sandro Botticelli https://www.instagram.com/p/CCu_l3JIvFn

Per molti questa situazione ha rappresentato un elemento negativo, in quanto le persone sono state spinte alla visita degli Uffizi solamente dalla presenza di Chiara, ma questo aspetto è solo la facciata.

Attraverso un solo post, poi rilanciato dall’account Instagram della Galleria degli Uffizi, Chiara Ferragni ha comunque messo in circolazione un’idea che si è diffusa tra i suoi milioni di follower giovani e adulti, italiani o stranieri.

Che la visita sia spontanea o che sia “spinta” dai social porta comunque a quella condivisione digitale che oggi rappresenta il fattore cardine per le entità museali.

E poi chissà, magari anche quella persona che all’inizio non pensava minimamente di visitare un museo, potrebbe ritrovarsi invece in mondo appassionante, in un’esperienza da voler replicare.

Villa romana di Oplontis, Torre Annunziata

Un case study interessante per la virtualizzazione ben riuscita di un sito archeologico è sicuramente il DAPO Project, eseguito dagli studenti dei Politecnici di Milano e Torino.

Il sito in questione è la villa romana di Oplontis, a Torre Annunziata, parte del famosissimo sito archeologico di Pompei. Questo progetto fa capire come l’entrata in gioco di tecnologia e design siano un beneficio per rispondere alle esigenze del visitatore moderno. 

Il progetto prevede delle esperienze interattive, sia online che in situ, grazie anche a un’app integrata con contenuti audio per guidare il visitatore all’interno del sito. 

Non solo, alcuni reperti sono stati dotati di sensori che, attivandosi con l’avvicinamento dell’individuo, producono interazioni sonore e visive. Il progetto è addirittura stato affiancato da Google Arts & Culture.

Ma in che modo una passeggiata tra le rovine di una villa è stata resa interattiva?

Tramite l’app è possibile scegliere tra quattro figure diverse, le quali avevano convissuto nella villa fino all’eruzione del Vesuvio, provenienti da diverse categorie sociali (il padrone, l’ospite, lo schiavo e l’artista).

Ognuno di questi personaggi guida il visitatore negli ambienti della villa dove verosimilmente si muoveva, raccontando in prima persona la propria esperienza. Questo metodo di “connessione” attiva tra visitatore e luogo visitato è una novità che dovrebbe essere applicata universalmente. 

La maggiore chiarezza dei contenuti permette ai professionisti del settore di rendere disponibili le loro conoscenze agli individui inesperti in materia. La scelta (anche multipla) dei quattro personaggi permette una libertà assoluta di movimento all’interno del sito, senza percorsi obbligati o audioguide numerate. 

Questa fruizione attiva e “fuori dagli schemi”, stile walkthrough, ha avuto infatti come risultato un maggiore successo e interesse da parte del pubblico.

Gli obiettivi del DAPO Project per comunicare il patrimonio culturale

Sono questi gli obiettivi del DAPO Project: rendere il patrimonio più “smart”, portare l’esperienza di visita dal lineare e passiva a circolare e attiva, trasformare il visitatore da spettatore a protagonista. 

Ma nel sito di Oplontis la tecnologia non si è fermata qui. In collaborazione con la University of Texas at Austin è stato possibile effettuare un recupero digitale di opere andate perdute e addirittura una ricostruzione 3D degli ambienti del sito, all’interno dei quali è possibile spostarsi semplicemente usando il mouse.

Conclusioni

In questo articolo abbiamo parlato di virtualizzazione delle visite museali, coinvolgimento degli influencer nel marketing museale, interattività delle esperienze e modelli 3D dei siti archeologici.

Tutti questi elementi per comunicare il patrimonio culturale, se applicati almeno in parte in ogni ente museale o sito archeologico, aiuterebbero gli stessi a raggiungere l’obiettivo principale per cui sono nati: essere vissuti.  

Fonti consultate

  • A. D’Eredità, A. Falcone, D. Pate, P. Romi (2016), Strategie di divulgazione dell’archeologia online: metodologie, strumenti e obiettivi. Dalla redazione del piano editoriale alla misurazione dei risultati, in  «Archeologia e Calcolatori»,
    n.27, 2016, 331-352
  • Francesca Pontani (2020), Archeologia e Comunicazione Digitale, in ArcheoTime (canale YouTube), registrazione del seminario tenuto il 27 febbraio 2021 presso la Sala Sant'Angelo del Museo delle Necropoli Rupestri di Barbarano Romano (VT), https://www.youtube.com/watch?v=ARVcdpyTMXU
  • John R. Clarke, Enrico Ferraris, Massimo Osanna, Team DAPO modera Gian Luca Grigatti (2021), Archeologia digitale per la valorizzazione del patrimonio culturale, in Politecnico di Torino (Canale YouTube), 15 novembre 2020, https://www.youtube.com/watch?v=YKbDLq_WvFE
  • Sito ufficiale di Pompei con pagina dedicata alla Villa di Oplontis, http://pompeiisites.org/oplontis/

Telemedicina, e-Health e ICTs. Un futuro sempre più digitalizzato in ambito medico-sanitario

Avete mai sentito parlare di Telemedicina, e-Health, ICTs? Sono probabilmente termini ancora poco noti tra le persone. Eppure, potrebbero essere la chiave giusta per una svolta davvero importante in ambito medico-sanitario, e non solo.

In questo articolo andremo ad approfondire tali concetti. Vediamo quindi insieme cosa significano, quali sono i loro obiettivi, le loro potenzialità e come posso essere strumento di innovazione socio-sanitaria.

Cos’è la Telemedicina?

Secondo quanto riportato dal sito del Ministero della Salute, per Telemedicina si intende

 

«una modalità di erogazione di servizi di assistenza sanitaria, tramite il ricorso a tecnologie innovative, in particolare alle Information and Communication Technologies (ICT), in situazioni in cui il professionista della salute e il paziente (o due professionisti) non si trovano nella stessa località»

 

La Telemedicina, in quanto tale, permette quindi di raggiungere un nuovo consolidamento del rapporto tra medico e paziente, e tra i diversi professionisti sanitari. 

Non deve quindi essere intesa come una modalità sostitutiva della medicina tradizionale, ma come un strumento aggiuntivo che, anzi, rafforza quanto già presente sul territorio.

Come può esserci utile la Telemedicina?

Tra i maggiori benefici che possiamo trarre della Telemedicina troviamo:

  1. Equità di accesso all’assistenza sanitaria
    Questo rappresenta un punto importante se pensiamo a tutte quelle zone con scarsi collegamenti (isole, zone di montagna, aree rurali).
  2. Migliore qualità dell’assistenza garantendo la continuità delle cure
    Il paziente ha la possibilità di essere assistito a casa propria, senza che il medico sia presente di persona. A questo proposito possiamo parlare di Telemonitoraggio, soluzione pratica soprattutto per malati cronici. Questo porta inoltre ad alleggerire il carico degli ospedali e di tutte le strutture sanitarie presenti sul territorio.
  3. Migliore efficacia, efficienza, appropriatezza
    Maggiore comunicazione tra i diversi attori con conseguente riduzione delle ospedalizzazioni, riduzione dei tempi di attesa, ottimizzazione dell’uso delle risorse disponibili.
  4. Contenimento della spesa sanitaria e contributo all’economia
    I nuovi modelli organizzativi basati sulla Telemedicina implicano una gestione razionale dei processi sociosanitari con un conseguente impatto sul contenimento della spesa sanitaria, riducendo il costo sociale delle patologie.

Come si articola la Telemedicina?

La Telemedicina si articola principalmente su tre fronti: telemedicina specialistica, telesalute e teleassistenza. Vediamoli nel dettaglio.

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Grafico classificazione

Telemedicina Specialistica

La Telemedicina Specialistica comprende i servizi che avvengono in una disciplina medica specifica. Si struttura a sua volta in sottocategorie e può avvenire tra medico e paziente, oppure tra medici specialisti. Consiste nell’erogare prestazioni mediche in ambito specialistico in via telematica.

Per fare un esempio, una visita dermatologica effettuata da remoto rientra in questa categoria: paziente e medico, o medici specialisti tra loro, interagiscono a distanza. È possibile scambiarsi documenti, informazioni, e dati relativi al servizio erogato.

Telesalute

La Telesalute è un’altra macroarea. È una modalità alternativa a quelle tradizionali con la quale il medico (solitamente di medicina generale) gestisce un paziente.

Anche questa avviene a distanza, garantendo al paziente una maggiore autonomia e alle strutture sanitarie un’organizzazione più semplificata. Si serve di nuove tecnologie e strumenti per monitorare, interpretare, diagnosticare, e curare.

Come già accennato, il Telemonitoraggio in questo senso si dimostra fondamentale. I pazienti che maggiormente beneficiano della telesalute sono i malati cronici e gli anziani.

Teleassistenza

Infine, la Teleassistenza. Questa entra a far parte dell’ambito socio-assistenziale, piuttosto che sanitario (come la telesalute). L’obiettivo in questo ambito è quello di fornire assistenza domiciliare alle persone fragili, gli anziani, i disabili. Essi infatti necessitano non solo di cure mediche, ma di una vera e propria presa in carico della persona a 360°.

Tutto questo grazie a strumenti e tecnologie sempre più personalizzate che permettono la giusta continuità assistenziale.

Per fare un esempio, una persona con ridotta mobilità che ha bisogno di essere assistita a casa, potrà in questo modo rivolgersi ad un operatore sanitario in caso di necessità 24 ore su 24.

La persona viene dotata di un dispositivo telefonico dotato di un piccolo radiocomando da tenere con sé per eventuali emergenze.

Il significato di e-Health e ICTs

Due concetti chiave che affiancano quello della telemedicina sono “e-Health” e “ICTs”.

  1. Il termine e-Health si riferisce all’interazione di un individuo (consumatore, paziente, o operatore sanitario) con le tecnologie digitali di informazione e comunicazione (ICTs), quali internet e dispositivi mobili. 
  2. Il termine ICTs sta infatti per “Information and Communication technologies”. Si riferisce a tutto l’insieme delle tecnologie che hanno la funzione di elaborare e comunicare l’informazione tramite i mezzi digitali, il computer e le tecnologie informatiche correlate (hardware e software ), accessori e servizi per lo scambio delle informazioni.
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Grafico delle ICTs

Cosa si intende con il termine e-Health

La parola “e-Health” si compone di “Health” che dall’inglese si traduce “salute”, e la “e” che può assumere vari significati.

Da una parte può voler rimandare al concetto di “elettronico”, dall’altra parte invece si potrebbe associare tale lettera a parole che caratterizzano meglio il concetto di e-Health come efficienza, empowerment, etica, equità, educazione e evidence-base.

In generale, possiamo affermare che il termine comprende una vasta gamma di significati e servizi che spaziano dalla medicina e dall’assistenza fino all’information technology. e-Health è da considerarsi come un grande ombrello sotto il quale troviamo vari componenti.

I cosiddetti servizi "elettronici"

Un ruolo chiave, ad esempio, è rappresentato dalla cartella clinica elettronica e dal fascicolo sanitario elettronico. Questi sistemi permettono la raccolta di dati sulla storia clinica dei pazienti, sui loro esami e sulle terapie in corso.

È possibile così archiviare elettronicamente molte informazioni per aiutare il medico a prendere le migliori decisioni per la cura, e il paziente ad avere diretto accesso alle sue stesse informazioni. Un vantaggio che ne consegue è l’eliminazione della documentazione cartacea, insieme a molti altri.

L'interoperabilità tra sistemi

Un altro componente è l’interoperabilità tra sistemi, ovvero l’identificazione di standard nella raccolta dei dati. Ciò renderebbe possibile, per esempio, accedere ai dati di un paziente ricoverato in un ospedale e proveniente da una differente area geografica nella quale è in uso un diverso sistema di cartella clinica elettronica. 

Allo stesso modo consentirebbe agli ospedali stranieri di consultare la storia clinica di un cittadino italiano quando egli si trova all’estero per viaggio o per lavoro.

La prescrizione elettronica

Infine, e-Health comprende la prescrizione elettronica: le ricette passano dal formato cartaceo a quello elettronico. Questa “dematerializzazione” consente molteplici impieghi della ricetta stessa, come il monitoraggio delle cure.

Medico che scrive al computer

I vantaggi dell'e-Health

I vantaggi che porta l’ e-Health sono molteplici. Tra i più importanti ci sono:

  1. Supporto alla gestione di patologie croniche
  2. Maggiore efficienza e qualità delle cure (maggiore accuratezza delle diagnosi, maggiore precisione delle procedure mediche, ecc.)
  3. Riduzione del costo economico delle cure

Tutti questi strumenti lavorano in sincronia per portare all’obiettivo più alto del cosiddetto “Patient’s Empowerment”.

Quest’ultima nozione, a sua volta, rimanda a una ridefinizione dei rapporti paziente-professionista sanitario: tradotto dall’inglese significa letteralmente “potenziamento del paziente”. 

Consiste nel fornire al paziente più strumenti possibili affinché esso possa prendere decisioni più consapevoli circa il suo benessere. Il paziente partecipa più attivamente alle proprie cure, informato ed educato dai medici. E, paradossalmente, la distanza tra la persona e il medico diminuisce.

Si ha così una maggiore educazione sanitaria e una riduzione delle diseguaglianze culturali e sociali.

Le conseguenze del Covid-19 sulla Telemedicina

La pandemia, aimè, merita una menzione a parte. L’emergenza sanitaria è stata l’occasione per sperimentare soluzioni che hanno consentito di contenere il contagio, ridurre le ospedalizzazioni e gestire i pazienti sul territorio. 

Data la mancanza di un trattamento medico efficace per contrastare il virus, le misure sanitarie per contenere il contagio si sono focalizzate principalmente sul distanziamento sociale, sull’uso della mascherina e sull’obbligo di effettuare un periodo di quarantena da parte delle persone infette.

Mascherina e computer

Le misure di prevenzione

In ambito ospedaliero e ambulatoriale le misure di prevenzione sono state ancora più pesanti: l’accesso alle strutture ospedaliere per le visite mediche, per i trattamenti e per accertamenti non urgenti, è stato interrotto. 

Si sono create così lunghe liste di attesa e ritardi potenzialmente pericolosi. Di fatto, è stato necessario escogitare nuovi modi di interazione tra il medico e il malato.

A questo proposito, i sistemi di telemedicina hanno aperto nuove strade nella gestione sanitaria dei pazienti durante situazioni di emergenza, come proprio quella da Covid-19. Nei tempi del Covid-19, la telemedicina ha rappresentato una delle soluzioni più efficaci per la gestione, consentendo di ridurre appunto l’accesso alle strutture ospedaliere e concorrendo quindi al contenimento della diffusione del contagio.

Con la pandemia e i problemi di comunicazione e interazione legati ad essa, la ricerca si è spinta molto verso l’utilizzo di nuove strategie per poter comunque mantenere l’attenzione su tutti i pazienti. Gli ospedali hanno di fatto dirottato l’attenzione verso i nuovi malati (persone che hanno contratto il virus in forma grave).

La realtà virtuale in ambito medico

La realtà virtuale, in questo caso la creazione di spazi virtuali che riproducono fedelmente un contesto reale di tipo ospedaliero-ambulatoriale, può far sì che tutti i pazienti vengano “considerati”.

Per fare alcuni esempi, ci sono molte aree mediche che hanno necessitato una continuità medico-sanitaria.

Negli ultimi anni l’uso della realtà virtuale è stato infatti proposto come nuova soluzione tecnologica in diverse specialità mediche tra cui la neuroriabilitazione, la salute mentale, il dolore cronico, o i disturbi alimentari.

La realtà virtuale è una tecnologia interattiva che offre la possibilità di creare ambienti virtuali con caratteristiche specifiche disegnate su indicazione dei clinici o dei ricercatori a seconda degli obiettivi terapeutici.

Conclusioni

Riusciamo a questo punto a capire l’importanza di questi tre concetti al giorno d’oggi e nel futuro più prossimo. Sono le prossime frontiere in ambito socio-sanitario. Quelle che ci permetteranno una sempre più efficiente ed efficace gestione dei pazienti e organizzazione sanitaria.

La coniugazione della medicina e della tecnologia, affiancata dal progredire delle nozioni scientifiche, porterà molteplici vantaggi per tutti. 

Cure sempre più individuali e personalizzate sulla base delle esigenze dei singoli individui. Maggiore efficienza delle strutture sanitarie si accompagnerà a una maggiore efficacia della gestione dei pazienti.

Inoltre, non meno importante, i caregiver potranno inserirsi con più facilità nella gestione assistenziale e sanitaria dei propri cari. 

Si viene a creare così un triangolo di figure in maggiore sincronizzazione tra loro: paziente, medico, caregiver. È come una formula magica per migliorare il funzionamento di un sistema già presente sul territorio.

Medico con lo smartphone

La telemedicina come strumento di inclusione sociale e culturale

Alcuni potrebbero pensare alla telemedicina come a un aumento delle distanze. Come qualcosa che porta inevitabilmente le persone ad allontanarsi tra loro, con un risvolto negativo sulla qualità dei servizi erogati. Ma, al contrario, la Telemedicina e i suoi strumenti possono ridurre queste distanze.

Possono garantire equità di accesso alle cure a tutti i cittadini, indipendentemente dal luogo di provenienza, dallo stato sociale, dall’etnia, dall’età.

La Telemedicina, pertanto, esce dall’ambito puramente sanitario e si pone come strumento per una maggiore inclusione sociale e culturale.

Tuttavia bisogna considerare alcuni aspetti limitanti della telemedicina. 

Vantaggi e svantaggi della telemedicina

L’accesso alla telemedicina, come ad altri strumenti di monitoraggio domiciliare, sembra non essere disponibile per tutti i pazienti. Questo porta inevitabilmente a una disparità nell’assistenza e a importanti disuguaglianze di salute.

Inoltre, si aprono nuove problematiche legate alla privacy, all’accesso e al potenziale abuso dei dati dei consumatori. È necessario pertanto considerare gli aspetti etici legati a queste nuove tecnologie e alla promozione di criteri di equità per evitare che l’e-Health diventi un ulteriore fattore di discriminazione sociale, economica, e politica.

Altra problematica potrebbe essere rappresentata dalla lingua inglese, spesso usata in ambito tecnologico e spesso scarsamente parlata nel nostro paese, soprattutto nella popolazione anziana.

Per concludere, la telemedicina è senza dubbio un mezzo potente per il futuro, ma che al giorno d’oggi richiede sforzi per superarne le problematiche a essa legate e lungimiranza per le sue potenzialità.

Errori di comunicazione che hanno fatto la storia

Piccoli equivoci senza importanza

Quante volte ci è capitato di pensare che non fosse solo un caso, quanti rimpianti pensiamo di doverci portare avanti per delle decisioni che abbiamo preso in momenti in cui forse non avremmo dovuto.

Antonio Tabucchi, in uno dei suoi libri, si interroga sulle possibilità che offre la vita, sui bivi, sui percorsi, sulle scelte fatte e sui ruoli intrapresi. 

Lui chiama “piccoli equivoci” gli eventi guidati dal fato o dal caso che determinano la nostra vita. In molti dei suoi racconti Tabucchi propone una riflessione sulle varie visioni della vita: non ce n’è una sola, ma ognuno la vede a modo suo.

«La vita è un appuntamento, so di dire una banalità, Monsieur, solo che noi non sappiamo mai il quando, il chi, il come, il dove. E allora uno pensa: se avessi detto questo invece di quello, o quello invece di questo, se mi fossi alzato tardi invece che presto, o presto invece che tardi, oggi sarei impercettibilmente differente, e forse tutto il mondo sarebbe impercettibilmente differente […] Un appuntamento e un viaggio, anche questa è una banalità, mi riferisco alla vita, naturalmente, chissà quante volte è stato detto; e poi nel grande viaggio si fanno dei viaggi, sono i nostri piccoli percorsi insignificanti sulla crosta di questo pianeta che a sua volta viaggia, ma verso dove? È tutto un rebus […] E poi, sa com’è la vita, è come una tessitura, tutti i fili si intrecciano, è questo che un giorno vorrei capire, vedere tutto il disegno […] la vita è un ingranaggio, una rotella qua, una pompa là, e poi c’è una cinghia di trasmissione che collega tutto e trasforma l’energia in movimento, proprio come nella vita, un giorno mi piacerebbe capire come funziona la cinghia di trasmissione che lega tutti i pezzi della mia vita, il concetto è lo stesso, bisognerebbe aprire il cofano e stare lì a studiare il motore che ronza, collegare tutto, tutti gli istanti, le persone, le cose»

Antonio Tabucchi, Scrittore e Critico Letterario

Cosa sarebbe successo se

In queste parole, che si trovano nel terzo racconto del libro, si può capire l’interpretazione di Tabucchi riguardo la vita, intesa come un rebus dove tutto è affidato al caso. 

Per lui è centrale il “cosa sarebbe successo se”, così come il fascino attraente delle strade non percorse, del non detto e dell’insopprimibile voglia di riscrivere le nostre vite.

I personaggi di queste storie non prendono scelte, ma sono guidati dagli eventi.

Non si può infrangere il destino perché la storia è già scritta, perché la vita è determinata da quei piccoli equivoci senza importanza, che lavorano nell’ombra mettendo in discussione le nostre certezze, lasciando solo il dubbio.

Come si dice nel primo racconto che dà il nome alla raccolta: «tutto era davvero un piccolo equivoco senza rimedio che la vita si stava portando via, ormai le parti erano assegnate ed era impossibile non recitarle». 

Antonio Tabucchi ci invita a riflettere sull’ironia della vita: non siamo artefici del nostro destino, ci ritroviamo gettati in balia del disordine degli equivoci che per lui sono “senza importanza” proprio perché se qualcosa deve succedere, prima o poi accadrà, indipendentemente da noi e dalle nostre volontà. 

Sono “senza importanza” perché sono eventi così piccoli e irrilevanti rispetto al lungo corso della vita, che comunque è già stato deciso.

Antonio Tabucchi - "Piccoli equivoci senza importanza"

Piccoli equivoci che hanno avuto una grande importanza

Quanti errori invece, se ci pensiamo bene, sono stati fatti ed hanno cambiato per sempre la storia. Tante volte non si è trattato di grandi imprese o lampi di genio, ma proprio di quei “piccoli equivoci” a cui Tabucchi non dava importanza. 

È impossibile pensare di poter avere il controllo su tutto. 
Chissà, magari nemmeno il così tanto discusso destino riesce a stare al passo con le nostre decisioni irrazionali, prese senza pensarci due volte. O anche semplicemente con l’evoluzione che abbiamo fatto e continuiamo a fare nel tempo. Perché non c’è storia senza evoluzione. 

Ci sono tanti esempi di piccoli errori, malintesi ed equivoci, che invece hanno avuto importanza, a differenza di quello che ci vuole far credere il grande Tabucchi. 

Alcuni di questi sono stati fatti casualmente, ma tanti altri vengono pensati nei particolari per essere insediati nella società di oggi, in cui è possibile diffondere qualunque cosa ad una velocità capillare scatenando effetti inimmaginabili.

Le innumerevoli porte chiuse di JK Rowling

Basti pensare a JK Rowling: forse non tutti sanno che la bozza di Harry Potter era stata rifiutata da più di dieci case editrici prima di vedere la luce e diventare una delle saghe più conosciute al mondo. 

Non potremo mai sapere cosa sarebbe successo se la scrittrice avesse fatto colpo alla prima volta o se avesse deciso di demordere dopo così tante delusioni.

Le origini della ricetta di Coca Cola

Dietro alla famosa bibita conosciuta con il nome di Coca Cola c’è un piccolo segreto. 

La Coca-Cola nacque l’8 maggio del 1886 e a crearla fu il farmacista John Stith Pemberton, grazie all’uso di una caldaia. Il suo obiettivo non era quello di creare una bevanda ma uno sciroppo contro il mal di testa, servendosi di estratti vegetali e noci di cola. 

Quando aggiunse della soda al suo sciroppo si rese conto che la Coca-Cola si trasformava in una bibita piacevole e dissetante. Ed è così che nacque la bevanda la cui ricetta rimane segreta ancora oggi, custodita in una cassetta di sicurezza di una banca di Atlanta. 

Se non ci fosse mai stata questa intuizione da parte del farmacista, chissà se avremmo mai assaggiato quella che oggi è una delle bevande più amate.

Sui social gli errori sono sempre un caso?

Il caso Tom Holland

L’attore britannico Tom Holland, tra i protagonisti dei film targati Marvel, è conosciuto per il fatto che più volte, soprattutto sui social, si è lasciato sfuggire delle anticipazioni che non era autorizzato a trapelare.

È tutto un caso o un’autentica strategia studiata a tavolino?
Un motivo c’è se colui che interpreta Spider-man ha acquisito la simpatica nomea di Spoiler-man. Ma pensare che un attore del suo calibro possa permettersi di essere così “distratto” è da escludere dalle possibilità. 

Al giorno d’oggi è chiaro che i social media vengano utilizzati anche a scopo pubblicitario, perché rappresentano il mezzo di diffusione forse più veloce e potente che abbiamo a disposizione.

La viralità dei contenuti sui social media

social network sono utilizzati per lo scambio di notizie e di opinioni su ogni argomento e per molte persone sono diventati la fonte primaria presso cui informarsi.

social media rappresentano un grande strumento di marketing, utile per pubblicizzare le attività, ampliare la rete di contatti ed interagire direttamente con il pubblico.

Tanti contenuti online, su piattaforme come Tik Tok, Facebook e Instagram, vengono architettati appositamente per essere resi virali e fare scalpore. 

Quasi niente è lasciato al caso sui social. Si tratta di un modo di comunicare che non nasce in una notte, ma che è stato studiato ed analizzato.

Sul web si parla di viralità quando un contenuto viene diffuso ad una velocità e in un modo incontrollabile. Personaggi che fino a poco prima erano sconosciuti e sono diventati famosi nel giro di poco tempo ne sono un esempio lampante.

Lo strano caso del cinguettio degli Uffizi

Lo scorso 17 novembre, l’account Twitter ufficiale degli Uffizi ha diffuso in rete un post enigmatico, che non aveva niente a che vedere con il tono e i contenuti a cui è abituata la community social del museo fiorentino.

Il tweet con la strana scritta “Plllpppplllllpplpha generato in qualche ora centinaia di condivisioni e commenti: gatti che camminano sulla tastiera, gif e meme.

Successivamente gli Uffizi hanno pubblicato una risposta che ha divertito i molti seguaci: “Grazie per aver partecipato al primo contest dadaista. La #Plllpppplllllpplp Community è ufficialmente nata. Alla prossima!!! Rgrrfyyytffdsghh”.

Il post è stato un genuino “errore” compiuto da colui che è stato definito il social media manager più giovane di sempre: pare che durante l’iniziativa Uffizi Kids, un bambino abbia preso il cellulare di un’operatrice.

Tweet Gallerie Uffizi - #Plllpppplllllpplp Community

Conclusioni

Certo, gli errori sono comprensibili anche nel web, anzi soprattutto in esso, perché talvolta la fretta di condividere e di far sapere al mondo sembra più importante della veridicità dei fatti, per cui si tende a preferire la fugacità ad una maggiore cura ed attenzione.

In molti casi, come abbiamo visto, si tratta di una geniale e camuffata strategia.
Tante altre volte, invece, è necessario riconoscere che errare è umano. Anche in un mondo in cui le macchine, i computer e le tecnologie stanno iniziando ad assumere sempre più potere a discapito dell’uomo. 

Fonti

Sitografia

In che modo i colori esprimono la personalità di un brand?

Da sempre siamo stati abituati a fermarci di fronte a una luce rossa perché trasmette urgenza e pericolo, mentre una luce verde promette apparente sicurezza. Vi siete mai chiesti il perché?

Ogni colore viene percepito in maniera innata e trasmette sensazioni collegate a sentimenti o reazioni umane. Il colore si ricorda più facilmente di una parola o una  forma

In questo articolo scopriamo come i colori possono esprimere la personalità di un brand e influenzarne la percezione.

Il fenomeno della persuasione stimola i consumatori all’acquisto

«Immaginiamo per un momento come sarebbe la vita in un mondo senza colore, un mondo in cui potessimo vedere solo in bianco e nero. Ci è quasi difficile immaginarlo, perché è proprio il colore che definisce il nostro mondo.»

Laurie Pressman, Vicepresidente del Pantone Color Institute

Il colore è un elemento identificatore, ci induce a sentire una connessione con l’ambiente, è un mezzo prezioso per esprimere e trasmettere idee.

Ognuno di noi attribuisce ai colori emozioni e sensazioni differenti, ma alcune caratteristiche vengono percepite in modo univoco.

Ad esempio, quando osserviamo un prodotto, tutti noi inconsciamente ci soffermiamo sull’aspetto visivo, che, rispetto al tatto e all’olfatto, ci influenza maggiormente.
Lo stimolo visivo è il primo aspetto sensoriale che ci orienta nella scelta

Per ottenere un rapporto di fiducia e stima reciproca con l’acquirente, un brand ha bisogno di persuaderlo e di attirare la sua attenzione. Come vedremo, il colore aumenta dell’80% il riconoscimento di un marchio: è uno strumento necessario per riuscire a farsi notare.

Vediamo in che modo un colore, attraverso la sua forte risonanza, possa diventare l’essenza stessa del brand.

Blue Tiffany, l’unicità di un colore inconfondibile

Blue Tiffany, questo nome riconduce alla famosa gioielleria Tiffany & Co. di New York.
È il colore dell’amore e delle emozioni, così iconico, elegante, fresco e delicato che non può essere sminuito.

Il colore venne scelto dal fondatore Charles Lewis Tiffany per la copertina del Blue Book, una raccolta annuale di gioielli.

Protetto da copyright, il Blue Tiffany viene prodotto con il numero 1837, che corrisponde all’anno di fondazione di Tiffany.

Unico nel suo genere, è impossibile che si trovi nelle mazzette di pantone, perché è legato in maniera indissolubile alla brand awarness di Tiffany.

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Come avviene la scelta di un colore nei loghi

Il colore è il fattore principale nel design di un logo, biglietto da visita che trasmette l’identità di un’azienda. Vediamo come vengono scelti i colori dalle aziende più popolari e in che modo questi colori esprimono la personalità del brand.

Rosso

Il rosso è un colore vitale, attira immediatamente l'attenzione, stimola impulsività e stuzzica l'appetito. È molto usato dai brand alimentari (Coca-Cola, Netflix, Kellogg’s) ma anche nelle insegne per saldi e promozioni

Giallo

Il giallo è associato all'energia, all'attività mentale e all'azione (Shell, Eni, National Geographic).

Arancione

L'arancione è il colore della creatività e dell'energia mentale, richiama positività ed empatia.  È adatto per risaltare elementi grafici, come pulsanti di call to action o box di offerte.

Verde

Il verde evoca tranquillità, pace, salute e freschezza.  È perfetto per brand biologici e green, ma è molto apprezzato anche da marchi che vogliono ispirare fiducia (Whatsapp, Starbucks e Android).

Blu

Il blu è il colore preferito dal 42% della popolazione mondiale e ispira lealtà, calma, stabilità e pensiero ponderato. Dalle banche alla Polizia di Stato, è indubbiamente la scelta di chi vuole farsi accettare dal pubblico (Facebook, Samsung, LinkedIn).

Viola

Il viola è strettamente legato all’eleganza, al lusso, all’introspezione, ma anche al mistero. Colpisce maggiormente un target femminile, per questo ispira anche sensualità ed eleganza (Milka, Twitch, FedEx).

Marrone

Il marrone evoca calore, artigianalità, comfort e serenità. A seconda dell’intensità può trasmettere un’idea di rustico o di vintage (Ups, Louis Vuitton, M&M’s).

Argento

L’argento è associato al metallo ed esprime resistenza e solidità. Molte case automobilistiche o aziende informatiche prediligono questa tonalità di colore (Audi, Apple, Wikipedia).

Bianco e Nero

Il bianco e il nero spesso sono abbinati insieme per ottenere un’immagine minimalista, raffinata, lussuosa e pura (Puma, Adidas, Nike).

È sempre stata una questione di genere

Quando un brand vuole comunicare qualcosa, deve tenere in considerazione le preferenze e i bisogni del target di riferimento.

In Associazione dei colori, uno studio condotto da Joe Hallock, emerge come in entrambi i sessi il colore preferito sia il blu.

Al contrario il viola risulta uno dei colori meno favoriti dagli uomini, ma che piace molto alle donne.

Il sesso femminile predilige colorazioni più tenue e con tonalità chiare, mentre quello maschile preferisce colori intensi e dalle tonalità più scure.

Infine, esistono differenze anche in base al nome che viene associato ai colori. Se gli uomini accostano facilmente i diversi colori sotto grandi macronomi, le donne utilizzano moltissimi nomi che si discostano per tonalità.

In molti casi, alcuni brand escludono a priori la possibilità di utilizzare varie sfumature di colori, poiché potrebbero risultare “fuori target”: vediamo un esempio.

Secondo Nintendo l’estetica di GameCube risultava “troppo femminile”

Il 18 novembre 2001 uscì Nintendo GameCube in America, due mesi dopo il lancio originale in Giappone. La console non riscosse grande successo, ma l’iconico colore indaco che la caratterizza ha certamente contribuito a far parlare di sé.

Sin dal principio il reparto marketing di Nintendo of America non era affatto soddisfatto del colore della console, e cercò in tutti i modi di cambiare questo aspetto.

«Era un colore molto… femminile. Non sembrava mascolino. Pensavamo che avremmo collezionato delle opinioni negative dalla stampa solo per il colore.»

Color forecasting e la previsione di tendenze

Oggi viviamo di colori, cerchiamo di essere sempre al passo con la moda e i tempi.

Professionisti provenienti da tutto il mondo sfruttano conoscenze collettive per prevedere quali colori saranno in tendenza in un futuro prossimo.

La previsione del colore comprende ricerca e scienza: è un insieme di tecnica e arte.

Esperti del colore collaborano per individuare le tendenze cromatiche future, attraverso la ricerca di sondaggi rivolti al target e test di suddivisione dei prodotti.

Questo è fondamentale per affinare e prevedere le preferenze dei consumatori al momento dell’acquisto di un determinato prodotto o servizio: è una potente strategia che permette ai brand di pianificare in anticipo le mode.

L’ossessione di dover essere sempre in palette

Ti è mai capitato passare le giornate a scrollare Instagram in cerca dell’outfit perfetto? O di riscoprire improvvisamente quel vestito rimasto sepolto nell’armadio per anni?
Ecco, il colore ha un ruolo chiave soprattutto nel settore del fashion.

Non è fondamentale acquistare costantemente nuovi capi per stare al passo con le ultime tendenze cromatiche, come sottolinea Laurie Pressman, vicepresidente del Pantone Color Institute.

«Nel nostro ruolo di risorsa colore non stiamo suggerendo che i consumatori sostituiscano tutto il loro armadio.»

Laurie Pressman

Come spesso accade, i consumatori non dovrebbero sentire un senso di oppressione nei confronti delle continue tendenze provenienti dal settore moda, ma dovrebbero optare e scegliere combinazioni di tessuti e colori che portano felicità e buon umore.

L’industria del fashion potrebbe perciò evitare di proporre nuove palette colore e, di conseguenza, di coltivare un irrefrenabile desiderio di acquisto da parte dei consumatori.

Conclusioni

Già da piccoli sapevamo inconsapevolmente che il colore fosse una parte essenziale della nostra vita. Crescendo abbiamo maturato la consapevolezza emotiva delle componenti cromatiche.

La scelta del colore orienta in modo significativo l’efficacia del design e definisce l’immagine di un marchio.

Per padroneggiare il colore servono conoscenza, esperienza, giudizio e intuizione.

Esistono infinite sfumature capaci di influenzare le nostre scelte quotidiane, ma questo spesso lo diamo per scontato.